07 settembre 2007

Chiuso per rinnovo locale...

Le trasmissioni riprendono qui...

21 gennaio 2007

Moderazione infinita

di Marco D'Eramo

Nessuno è più estremista del vero moderato: perché non si è mai abbastanza moderati. C'è sempre qualcuno ancora più moderato del moderato, che lo ricatterà per non essere abbastanza moderato: non si può essere moderatamente moderati. Alla moderazione non si può applicare l'unica frase memorabile pronunciata dall'ex segretario dell'Urss, Gorbaciov, quando gli fu richiesto quale fossero le sue convinzioni religiose: «Sono un ateo non praticante».
È curioso come in politica il termine «moderato» sia diventato positivo, mentre negli altri ambiti di vita è negativo, soprattutto nella forma avverbiale: se una persona è «moderatamente intelligente», non vogliamo dire che è un genio. E se è «moderatamente simpatica», non ce ne stiamo innamorando. In politica no. Il moderato è al di sopra delle parti: c'è il moderato di destra, quello di sinistra e quello di centro. Il moderato è per natura bipartisan, anzi threepartisan. Da qui la fine, inevitabile, del «riformismo moderato»: qualunque riforma gli apparirà troppo poco moderata. Un esempio geniale è stato dato dal centrosinistra sui taxi. Le licenze prima dovevano essere liberalizzate: troppo giacobino! Ecco allora un primo compromesso con la corporazione, e mandato negoziale ai sindaci. A luglio il sindaco Walter Veltroni - campione del riformismo moderato, che spera anche di diventarne il suo leader politico - promise 3.500 licenze in più, a Roma, per settembre: il che ci avrebbe portato alla metà del rapporto taxi/abitanti rispetto a Londra. Ma era ancora troppo estremista. A dicembre si parlava di 1.500 licenze in più a gennaio. Adesso non se ne parla proprio più. La riforma è evaporata, ma con moderazione.
C'è un solo gruppo sociale su cui la moderazione si permette di essere smodata. Ed è nello stangare i dipendenti salariati, i precari, i pensionati, gli ammalati, gli studenti. Su di loro i balzelli (chiamati tickets), i tagli, i prelievi, gli inasprimenti, gli esuberi, gli innalzamenti, non sono mai abbastanza incisivi, chirurgici, strutturali. È chiaro: la moderazione del moderato è quella che modera le altrui aspettative e l'altrui livello di vita. Modera la nostra fiducia nel futuro.

19 novembre 2006

Eccoci?

Prendo una boccata d' aria dopo un week-end soffocante, politicamente parlando, ma non in senso negativo, tutt'altro. Grazie ad amico di Reggio infatti mi sono infiltrato in veste di invitato, con tanto di tesserino di riconoscimento, per due giorni al 3° Congresso del CSP-CSU tenutosi poco fuori Bologna. Il CSP-CSU (che sta per Comitati in difesa della scuola pubblica-Coordinamento studenti universitari) è un' organizzazione, che è nata grazie al lavoro di alcuni ragazzi di Falce e Martello, sull' esempio del Sindicato de Estudiantes formatosi in Spagna con l' intento di rappresentare un soggetto nuovo ed un elemento di discontinuità nel panorama della rappresentanza studentesca che, come dichiarato da me nel post precedente, ha bisogno di rinnovarsi radicalmente. Se da un lato c'è stata indubbiamente un pò di fatica nell' affrontare questa intensa due giorni, dall' altro ho avuto piacevoli sorprese nel conoscere ragazzi molto simpatici e formati politicamente, ospitandone inoltre alcuni a casa mia qui a Bologna. Ho scambiato anche due parole con un ragazzo di Rifondazione della provincia napoletana al quale ho chiesto un parere sulla candidatura di Marco Rossi-Doria del quale mi ha parlato come mero vertice di un movimento di "borghesi intellettuali", quindi non ho insistito più di tanto, anche se la sua eventuale elezione a sindaco, ritengo, soprattutto alla luce di quello che è accaduto qualche settimana fa, avrebbe potuto rappresentare veramente una svolta nel contesto napoletano. Nonostante questa piccola macchiolina si è discusso anche della situazione bolognese che, a livello di rappresentanza studentesca universitaria, è in pieno stallo e si è parlato quindi di mettere su anche quì una "sezione" del CSU, mentre, per quanto riguarda la componente del CSP, a Bologna, il lavoro è già stato iniziato e con buoni risultati. Molto probabilmente non resterà che dire: al lavoro!

15 novembre 2006

Rieccoci...

In vista della manifestazione del 17 novembre il dibattito mediatico su università e ricerca è vivo. Articoli come quelli di Margherita Hack e di Pietro Reichlin illustrano a mio avviso bene la situazione che ci troviamo di fronte, una delle numerose anomalie all' italiana. Per evitare però di essere ripetitivo in queste due righe volevo analizzare lo status quo da un punto di vista diverso e poco preso in considerazione: gli studenti. Gli studenti in quanto soggetti che usufruiscono del servizio erogato dalla scuola pubblica, in quanto futuri cittadini, in quanto base fondamentale per ridare slancio al paese e di conseguenza centro di questo sistema scolastico che a volte pare dimenticarseli. Venerdì in molte città italiane scenderanno in piazza per protestare contro l'inadeguatezza di questo governo e della sua finanziaria dalle mille facce. Ma siamo sicuri che gli studenti siano esclusivamente le vittime sacrificali di Padoa-Schioppa adesso e della Moratti prima? Quanta responsabilità hanno gli studenti in questa situazione? Se da un lato critichiamo duramente il Governo per la sua inadeguatezza secondo me va fatto lo stesso nei loro (nostri) confronti. Credo che se vogliamo rivendicare un ruolo da protagonisti non possiamo aspettare che questo venga calato dall' alto senza muovere un dito oppure come conseguenza di qualche corteo male organizzato, ma deve essere il risultato di un' impegno consapevole, costante e di tutti. La riprova della nostra inadeguatezza in quanto popolazione studentesca l' ho avuta pochi giorni fa ad una assemblea dei collettivi autonomi, in vista della manifestazione di venerdì a Bologna, dove un ragazzo di Rifondazione ha criticato in maniera seria e pacata le modalità di protesta e dibattito degli stessi collettivi attirandosi repliche violente e non democratiche, in primis perchè legato ad un partito. La reazione dei presenti (per altro pochi) è stata fuori luogo ed a tratti fascita, ma la cosa preoccupante è stata la poca capacità di ascoltare e di autocritica che i ragazzi hanno dimostrato di avere, nonostante si "professassero" di sinistra. Una reazione drammaticamente simile a quella dei politici nostrani, avversi alle critiche.
Se dobbiamo cambiare qualcosa in questo paese c'è quindi bisogno di ripensare anche il soggetto studentesco per creare un conflitto sociale vero e non un surrogato già confezionato, che non crei mostri come Muccino in "Come te nessuno mai", ma consapevolezza anche nello studente non politicizzato e menefreghista.

03 novembre 2006

Diritto allo studio?

Un copia-incolla per salvare la vita a questo pseudo-blog:

di Marco Rossi-Doria

Ho riguardato con cura i dati sulla povertà relativa in Italia e nella nostra regione e città.
Mi occupo di povertà da anni perché un indicatore importante del fatto che la scuola pubblica assolva alla sua primaria funzione, in un qualsiasi paese del mondo – secondo tutti i documenti ONU e tutti gli studi - risiede nel fatto che vi sia mobilità sociale ossia che i figli di operai o disoccupati o contadini o impiegati abbiano la scelta di fare cose diverse dai propri genitori e guadagnare anche meglio, che abbiano, dunque, scelte disponibili e opportunità tendenzialmente sempre più uguali agli altri cittadini più fortunati. Si tratta della scuola nella sua funzione di leva per la “discriminazione positiva” che è quella cosa per la quale si dà di più a chi parte svantaggiato e si evita di perpetuare l’ineguaglianza dando cose standard e uguali a persone in condizioni di partenza non uguali. Per i giovani cittadini in crescita questa possibilità di emancipazione dalla condizione di partenza grazie alla scuola pubblica è internazionalmente considerato anche un indicatore di democraticità della società perché è acclarato che maggiore sapere facilita cittadinanza e possibilità partecipative che, a loro volta, nella società della conoscenza, favoriscono competenza deliberativa a livello locale e nazionale. Democrazia e mobilità sociale verticale sono tra loro legate e hanno origine in un buon sistema scolastico pubblico. E il primo passo in questa direzione sta nella possibilità che un figlio o figlia di poveri, grazie alla scuola, non riproduca la condizione di partenza ma, invece, esca dallo stato di povertà.
Chi è un povero oggi in Italia? Si considera povera una famiglia di due persone che vive con meno di 936,58 euro al mese. Si ottiene questa cifra moltiplicando la spesa media pro-capite nel Paese per un coefficiente che calcola le ottimizzazioni ed è al contempo legato al numero dei membri della famiglia. Così un single è povero se guadagna meno di 561,95 euro al mese mentre una famiglia di quattro persone lo è sotto i 1.526,63 euro al mese.
Ebbene. La povertà relativa riguarda l’11,1% della famiglie italiane, ben 7.577.000 persone che sono il 13,1% dell’intera nostra popolazione. La percentuale aumenta per le famiglie con 1 lavoratore dipendente, per quelle con più persone in cerca di occupazione, per le donne sole e per famiglie più numerose, tanto che la percentuale di poveri ragazzi e bambini è maggiore della media. Ma attenzione: quasi tutti questi fattori trovano i picchi al Sud e si tratta, negli ultimi 2 anni, del 24% - 25% della famiglie meridionali – 1 su 4 ! – che sono povere nel Mezzogiorno. Ciò a fronte del 6,0% - 7,3% delle famiglie del Centro dell’Italia e del 4,5% – 4,7% delle famiglie del Nord. Inoltre la percentuale è sostanzialmente ferma per il Centro, è in lieve diminuzione per il Nord ma aumenta, invece, di circa 3 punti percentuali al Sud e l’intensità di povertà – il quanto si è sotto quella soglia – è ben più elevata a Sud.
La situazione in assoluto più grave è quella della Campania dove il 27% delle famiglie è povera e in costante aumento. E, entro la Campania, i picchi della crisi sono le zone metropolitane della Provincia di Napoli e, in modo esponenziale, le periferie e i quartieri interni della città di Napoli in particolare. Se si incrociano questi dati con quelli relativi a disattesa scolastica e fallimento formativo vi è piena corrispondenza: nelle aree territoriali di massima povertà aumenta il fallimento scolastico.
Inoltre la mobilità sociale verticale in Italia è sostanzialmente ferma, in generale, da circa 15 anni ed è chiaramente peggiorata dal periodo 1960- 1980. Allora i figli di operai e braccianti avevano più possibilità di emanciparsi e migliorare di quanto non lo abbiano oggi i figli di operai, impiegati e poveri a lavoro precario. E’ una situazione estrema tra i paesi sviluppati. La mancata mobilità sociale verticale è, poi, letteralmente precipitata nel Sud, in Campania e nell’area di Napoli in modo ancor più grave che altrove. E ciò spiega largamente la ripresa dell’emigrazione interna dalle nostre zone verso il Centro- Nord. La scuola italiana è dunque tra quelle meno capaci di favorire emancipazione, è una scuola più “di classe” delle altre dei cosiddetti paesi sviluppati ed è più “di classe” oggi che ai tempi di Don Milani. Non promette molto ai soggetti più deboli in termini di conoscenze e possibilità di lavoro futuro, non favorisce i processi democratici nella società della conoscenza per chi ne è fuori alla nascita, immette pochi ragazzi più esclusi nei processi di orientamento e nel mercato del lavoro locale, intercetta poco la fascia in assoluto più debole della popolazione adolescenziale che è quella che non termina o termina a stento gli 8 anni di obbligo, consente pochissima formazione continua nelle diverse età della vita in generale e per chi non l’ha fatta prima. Tutti questi indicatori sono ancor più marcati in Campania e a Napoli.
Non tutto dipende dalla scuola e un miglioramento della scuola senza strategie di sviluppo equilibrato sarebbe una politica monca. Tuttavia la scuola deve cambiare. E solo se cambia conserva la sua ragione d’essere. Altrimenti serve per dare buona scuola pubblica quasi gratis a chi ne ha meno bisogno – come acutamente osservava Domenico Starnone qualche anno fa. Questa constatazione significa porsi il problema di cosa cambiare nel modo di fare scuola a favore dell’apprendimento, coinvolgimento e sostegno maggiore ai ragazzi. Qual è la direzione per ritrovare la missione primaria della scuola? Non è facile indicare gli indirizzi. Ma alcune cose sono evidenti. Se i cambiamenti implicano più soldi ai docenti ma anche una trasformazione radicale nel modo di essere docenti in termini di reale maggiore libertà e di maggiore diretta responsabilità sull’organizzazione scolastica e sui processi di apprendimento si va nella direzione giusta. Se si superano le logiche di brutale standardizzazione dei processi di apprendimento a scuola (stesse lezioni, stessi compiti, stessi assetti didattici a tutti) a favore di un sistema misto che salvaguardi cose comuni ma sappia anche differenziare per dare di più o diverso a chi ne ha bisogno si va nella direzione giusta. Se si applica il principio “uguale salario a uguale lavoro” (tanto per usare la formula classica che fu addirittura di Marx ed Engels) e si abbandona la pretesa di dare “uguale salario a tutti” si va nella direzione giusta. Se i soldi vanno a premiare chi sta con i ragazzi e promuove innovazione, al contempo, ma come gruppo di docenti e non come singolo si va nella direzione giusta. Se si smontano le burocrazie e il delirio aziendalista, per di più anacronistico anche nelle aziende, a favore di vera autonomia scolastica per la quale le scuole rispondono al territorio del loro lavoro e concordano le modalità entro le quali possa avvenire una valutazione partecipata e premiano il protagonismo dei gruppi docenti organizzati come comunità di pratiche d’accordo con i dirigenti si va nella direzione giusta. Se si accoglie l’emergenza campana e napoletana e di altre aree di grave crisi nel Mezzogiorno e si dà sostegno straordinario alle buone cose ordinarie che si fanno ogni giorno a scuola e alle azioni che combattono la dispersione scolastica di massa si va nella direzione giusta. Se si premiano le innovazioni che funzionano si va nella direzione giusta. E’ questo di cui si deve discutere. Si tratta di una battaglia difficile e lunga che è “di democrazia”.
Non mi pare che oggi dalle nostre parti si intenda la politica come discussione di merito su queste cose.

24 luglio 2006

Indulto? No grazie...

Lettera di Di Pietro a Beppe Grillo:

Caro Beppe,

a pochi mesi dalle elezioni ho deciso di scriverti una lettera che spero tu possa pubblicare sul blog. Domani Unione e Cdl voteranno a favore di una legge, quella sull’indulto, che non era prevista nel programma dell’Unione e che io ritengo del tutto estranea alla volontà degli elettori del centrosinistra. Questa legge, nata per liberare le carceri, è stata estesa ai reati di falso in bilancio, corruzione, reati fiscali e finanziari anche nei confronti della Pubblica amministrazione.
Neppure il governo Berlusconi era arrivato a tanto. E’ un colpo di spugna che viene effettuato nel pieno del periodo estivo. Un atto gravissimo del quale è riportata un’informazione parziale, e spesso strumentale, da parte di giornali e televisioni. Il tuo blog, forse, può darne una diffusione maggiore e soprattutto libera.
Sono profondamente contrario al fatto che l’accordo per l’approvazione dell’indulto si basi su uno scambio politico con Forza Italia, in quanto prevede l’inclusione di reati per i quali vi sono processi e condanne di esponenti, anche di primo piano, della Casa delle Libertà. Se l’indulto passasse così com’è, tutti i fatti di mala amministrazione e di mala attività imprenditoriale, rimarrebbero impuniti. Si tratta di persone colpevoli di reati come tangentopoli, calciopoli, bancopoli. Persone che hanno occupato le indagini delle magistrature e le prime pagine dei giornali in questi ultimi anni.
Io ho scritto ai leader dei partiti dell’Unione per un vertice in cui discutere dell’indulto. Non ho avuto risposta. Nel Consiglio dei ministri dello scorso venerdì ho sottolineato la gravità di questa legge, contraria agli interessi dei cittadini, ma utile alle consorterie dei partiti.

Ho minacciato le dimissioni da ministro nella più totale indifferenza dei colleghi. L’Idv è il quarto partito della coalizione con 25 rappresentanti tra Camera e Senato. La sua uscita dalla coalizione può far cadere il Governo, ma io non mi sento di ritornare alle urne e, forse, di riconsegnare il Paese a Berlusconi.
L’Unione ha posto il veto sui nostri emendamenti per l’esclusione dei reati finanziari, societari e di corruzione dall’indulto. Lunedì e martedì prossimo l’Italia dei Valori farà tutto quello che è in suo potere per rallentare l’approvazione della legge sull’indulto attraverso una serie di emendamenti. L’Italia merita altri politici, altri governi. Non deve essere costretta a scegliere tra il peggio e il meno peggio, come tu spesso dici.
L’Italia dei Valori, da sola non può cambiare, questo Paese. Gli italiani devono fare sentire e forte la loro voce, in tutti i modi legittimi possibili, per evitare un ennesimo passo indietro della democrazia”.

Antonio Di Pietro.

19 luglio 2006

Israele è sola

Sono preoccupata - molto - per tutti quegli ebrei di origine assai diversa che hanno deciso di essere israeliani. Condivido l'allarme di questi giorni sulla sorte del paese che hanno creato. Comepotrà infatti mai sentirsi sicuro uno stato che ha fatto crescere attorno a sé tanto odio? Come potrà mai legittimare davvero la sua esistenza, non nelle istanze istituzionali dove è più che riconosciutoma nella coscienza deimilioni di arabi che gli vivono accanto e che per ragioni analoghe a quelle della diaspora ebraica si sentono anche loro fra loro solidali, se non assumendo il problema del popolo che la costituzione del loro stato ha lasciato senza patria né casa? Come potrà il governo di Tel Aviv invocare l'applicazione - sacrosanta - della risoluzione 1559 dell'Onu che ingiunge a Hezbollah di disarmare, quando ha, esso stesso, damezzo secolo, ignorato ogni altra risoluzione delle Nazioni Unite, a cominciare dalla, fondamentale, 242 che gli ingiungeva di ritirarsi entro i confini del '48?Comepotrà rendere convincente la propria voce che si accompagna a quella del suo altrettanto incosciente alleato americanonel rivendicare l'intervento armato contro l'Iran perché pretende di possedere un potenziale nucleare, quando Israele stessa lo possiede in violazione di ogni norma internazionale? Come potranno raccogliere adesione nella denuncia degli orrendi regimi dell'Iran, di SaddamHussein, dei Talebani, quando intrattengono ottime relazioni con altrettanto orrendi regimi reazionari (a cominciare da quelli del Golfo), e di fronte al disastro cui ha condotto l'intervento «democratizzatore» degli americani? Come potrà chiedere solidarietà contro la minaccia di Ahmadinejad, di Hamas, di Hezbollah, che rifiutano di riconoscere ufficialmente lo stato d'Israele, quando ogni giorno non solo insidiama rende risibile ogni prospettiva di creare uno stato palestinese, che infatti ancora non c'è, né mai ci potrà essere fino a quando a quel mozzicone di terra che dovrebbe costituirne l'embrione è negato ogni attributo di sovranità, del controllo delle proprie frontiere, economia e risorse, esposto al kidnapping e all'assassinio dei propri rappresentanti democraticamente eletti, ridotto a peggio di un bantustan nell'Africa dell'apartheid? Come potrà ottenere una reale accettazione della propria esistenza e far dimenticare le sofferenze e privazioni inaudite che la creazione di Israele ha imposto a chi ci abitava ed ebreo non era, se non col coraggio di ragionare sulla rispettiva storia e cercare con umiltà un compromesso, non negando con arroganza i diritti degli altri, mariconoscendoli e chiedendo però che anche gli altri riconoscano i propri? Comemai sarà possibile cancellare dalla memoria dei propri vicini le stragi quotidiane di innocenti, l'aver ridotto la Striscia di Gaza a un campodi concentramento esposto alle incursioni, senza acqua, cibo e lavoro? Come potrà sentirsi più forte ora che si è giocato ogni simpatia anche in Libano? Sgomenta in queste ore, ancor più che la sostanziale indifferenza verso le vittime, la cecità e l'incoscienza di chi si pretende amico di Israele e che, pur vivendo altrove, dovrebbe dunque avere il vantaggiodella lungimiranza che dà la distanza. E invece scelgono di aggiungere le loro grida alle grida della più irragionevole, furiosa e primitiva reazione, anziché richiamare quel governo alla ragione, farlo riflettere sull'errore tremendo di aver volutamente bruciato l'interlocutore migliore che avrebbe potuto avere, la laica Olp, e di detenere tuttora i suoi uomini più lucidi in galera, così aiutando il popolo israeliano a capire che la vera sicurezza del paese può esser conquistata solo per via politica, creando legami sociali culturali economici con i propri vicini, dando sicurezza e noninsicurezza ai palestinesi. E' vero: Israele è sola. Avere dalla sua il paese più potente del mondo, e con esso i suoi vassalli -media governi imprese - non riduce il suo isolamento. A chi sta a cuore salvare questo stato deve smetterla con questa mortifera, pericolosa, cieca solidarietà.

di Luciana Castellina

07 luglio 2006

Fascisti, brava gente.


Il 21 gennaio scorso Tommaso Paternoster e Alessandro Caparezzi, rispettivamente 22 e 33 anni, hanno aggredito un ragazzo in pieno centro a Bologna. Quest' ultimo aveva la "colpa" di indossare una spilla antinazista. I due hanno prima intimato al ragazzo di toglierla e di fronte al rifiuto sono passati alle mani. Risultato: dieci giorni di prognosi. Denunciati e arrestati i due fascisti al momento del fermo sono stati trovati con: coltello a serramanico, coltello "ordinario", noccoliera con punte acuminate, manganello telescopico, due cutter e catena con tanto di pezzo di ferro all'estremità. Insomma, un corredo da guerriglia urbana. Perfortuna Caparezzi e Paternoster (che sembrano più nomi da prete il primo e da cantante il secondo) sono stati condannati ieri a due anni e mezzo ciascuno.

05 luglio 2006

Partito Democratico?

Il correntone minaccia la scissione. Massimo D'Alema pare che freni. Giovanna Melandri nega che sarà il recinto del moderatismo. Marina Sereni dice che bisogna fare il programma per sciogliere le paure. Fra una buona e una cattiva intenzione, il partito democratico rimane lo spettro che si aggira sullo scenario politico. Si fa? Non si fa? Ma quando si fa? E come si fa? E soprattutto perché si fa? Credevamo di essere al come e invece siamo ancora al perché, ha scritto sul Riformista di ieri l'ex direttore Antonio Polito, replicando a un editoriale di venerdì del nuovo direttore Paolo Franchi, il quale aveva giustamente messo nero su bianco che «del perché un simile, inedito soggetto dovrebbe prendere corpo,e del perché l'Italia ne avrebbe bisogno, nessuno dei praticoni del 'partito nuovo' si è mai peritato di darci qualche ragione di carattere nazionale». Tali non essendo, a giudizio di Franchi, le esigenze di allargamento dei consensi elettorali di Ds e Dl, né «il tedioso chiacchiericcio» sulla necessità di far confluire le diverse tradizioni riformiste, né il successo delle primarie per Romano Prodi. Qualche ragione cercherà di darla il forum convocato per oggi a Roma dall'associazione per il partito democratico, presenti tutti gli interessati da Fassino a Rutelli a Cacciari a Parisi ad Amato. Ma allo stato attuale, la base più realistica per la discussione non l'ha fornita nessuno dei leader Ds, Dl e dintorni, ma un lungo e ambizioso saggio di Michele Salvati, pubblicato sempre sul Riformista in due puntate, venerdì e sabato. Impossibile da riassumere qui esaustivamente, ma di cui vanno almeno segnalati, e interrogati, alcuni passaggi. In primo luogo l'inizio, perentorio e sacrosanto: «Un 'partito nuovo' non nasce e non sopravvive se non risponde a un'esigenza storica, a una domanda del tempo, che i suoi promotori sono capaci di avvertire anche quando non è esplicita. Nasce e sopravvive se vi risponde». In secondo luogo il compito principale che per il nuovo partito viene indicato: prendere sul serio il rischio-declino dell'Italia e provare a rilanciare una crescita non solo economica ma anche civile e politica. In terzo luogo, la collocazione del progetto nella «storia lunga» della Repubblica: della cosiddetta Prima e della cosiddetta Seconda Repubblica, dei rispettivi sistemi politici e dei relativi blocchi. In quarto luogo, la definizione di una base culturale per il nuovo partito, con una rosa di autori di riferimento finora mai assunti esplicitamente come tali.
Personalmente condivido il primo e il secondo di questi punti, mentre avrei molte questioni da porre sul merito - non sulla rilevanza - del terzo e del quarto. Mi pare ad esempio tanto centrata la sottolineatura di Salvati del fallimento del primo centrosinistra nelal gestione della modernizzazione degli anni '60 e del consociativismo Dc-Pci nella gestione della crisi sociale degli anni 70, quanto affrettata l'analisi dei rapporti fra Psi e Pci; tanto apprezzabile l'esortazione a superare definitivamente le nostalgie per la «Prima» Repubblica, quanto rassicurante l'analisi delle derive della « Seconda», che non sono riducibili al «cattivo funzionamento» del bipolarismo ma a fattori di crisi sociale e politica che hanno scavato in profondità. Ancora: tanto condivisibile è la necessità di contestualizzare il progetto del nuovo partito nel «mondo cambiato» del dopo-'89, quanto discutibile è l'accettazione sostanziale della cassetta degli attrezzi di Blair, o la sua sostanziale equiparazione a quella di Schroeder e Zapatero; e tanto chiara è la defizione della'orizzonte culturale liberal-socialista (Sen, Rawls, Dworkin, Bobbio, Walzer) del partito democratico, quanto liquidatorio il giudizio sui «residui marxisti» presenti a sinistra. Infine e soprattutto: tanto è convinto l'invito a «derivare dal valore della democrazia una serie di implicazioni programmatiche forti», quanto è elusa la questione della crisi che le democrazie reali di oggi attraversano. Forse è proprio da qui che bisognerebbe avere il coraggio di cominciare a discutere. Ma allora quel nome, «partito democratico», apparirebbe ancor più spettrale di quanto non sia.

di Ida Dominijanni