25 aprile 2006

Liberticida!


Bertinotti ha toccato uno dei temi più delicati nel panorama politico nazionale: le televisioni di Berlusconi e di conseguenza il conflitto di interessi. In questi anni chi ha fatto lo stesso è stato etichettato la maggior parte delle volte come "liberticida" e quindi "comunista". Basta sfogliare le pagine dei giornali per scorgere queste due parole che si rincorrono senza sosta in riprova della natura "illiberale" degli "eredi del comunismo" (le parole virgolettate sono del Cavaliere). Molte dichiarazioni di "solidarietà" sono arrivate dal centrosinistra stesso per difendere Mediaset "un patrimonio per l' Italia, un' impresa strategica che deve poter affrontare serenamente il futuro in un quadro di regole certe e all' altezza di un paese europeo"(parole di D'Alema nel lontano '96). Inoltre Marco Rizzo (Pdci) intervistato da una giornalista di Studio Aperto è stato capace di dire che il ridimensionamento di Mediaset sostenuto dal segretario del Prc andrebbe contro gli interessi dei lavoratori.
Si potrebbe andare avanti così, elencando affermazioni stupide di gente altrettanto stupida, a riprova della miopia, forse voluta, della classe politica italiana. Ma non avrebbe senso. Ha senso invece ricordare la sentenza della Corte Costituzionale riguardo la legge Mammì del 7 dicembre '94: "Il legislatore è vincolato ad impedire la formazione di posizioni dominanti nell' emittenza privata e favorire il pluralismo delle voci nel settore televisivo, [...] nel senso che l' esistenza di un' emittenza pubblica non vale a bilanciare la posizione dominante di un soggetto privato. [...] Il legislatore [...] doveva contenere e gradualmente ridimensionare la concentrazione esistente e non già legittimarla stabilmente, non potendo esimersi dal considerare che la posizione dominante data dalla titolarità di 3 reti su 9 assegna un esorbitante vantaggio nella utilizzazione delle risorse e della raccolta pubblicitaria". Queste parole sono sacrosante e dovrebbero essere ricordate più spesso a chi leva gli scudi contro Bertinotti per difendere i "custodi" del pluralismo e della libertà. Norma Rangieri analizza lo status quo in maniera realista e critica:
Si fa la televisione per vendere la pubblicità, non si vende la pubblicità per pagare la televisione. E' la regola aurea del medium commerciale che, in virtù di un modello limpido di business, produce straordinari profitti. In Italia Mediaset ne è un esempio forte, imbattibile, al punto che il recente bilancio ha regalato agli azioni una cedola superlativa, la più alta degli ultimi anni.
La televisione dell'ex presidente del consiglio è una grande industria. Come del resto lo è quella, altrettanto florida, delle italianissime mine antiuomo. Mediaset è la più grande fabbrica di demagogia populista, i suoi palinsesti (telegiornali-megafono e reality) la sparano a cannonate, annullando ogni lume di cittadinanza. Eppure, chi accenna a sollevare qualche dubbio sulla pubblica utilità di questa grande azienda commerciale (quella televisiva), commette un grave, gravissimo peccato di leso pluralismo. Come se dagli schermi Mediaset uscisse ogni giorni il lievito necessario per il progresso del paese, anziché quel misto di propaganda politica e spot mascherati da programmi.
La ragione di una reazione tanto strumentale è sotto gli occhi di tutti: si va a sbattere contro una classe dirigente (di destra e di sinistra) legata al piccolo schermo da un cordone ombelicale che nessuno vuole tagliare. Di cui porta una grande responsabilità il lento declino del servizio pubblico. La sua assimilazione al principio che si fa televisione per vendere la pubblicità, lo ha reso così affine, indistinguibile dalla tv commerciale, che il progetto di restituirlo alla dignità di un modello europeo (inglese, spagnolo, francese, tedesco) viene immediatamente piegato a un'idea di ridimensionamento educational, allontanando così l'idea di una sua rifondazione. Il minculpop c'è ora, con il soffocante cappio del controllo partitico che impedisce ogni riforma del mostro a sei teste. Invece di sbloccare il duopolio-monopolio, esso viene perpetuato con nuove leggi (da ultimo la Gasparri) che puntualmente fotografano l'esistente, rinviando ogni liberalizzazione del settore.
Se Fausto Bertinotti interviene sulla necessità di rompere il monopolio privato (senza neppure eccepire sulla utilità della merce), diventa il vendicativo manovratore, l'avanguardia di una ritorsione politica, il tagliatore di posti di lavoro. Parallelamente, di fronte al bisogno di privilegiare il servizio pubblico, si grida al dirigismo sovietico. Come se pubblico e partitico fossero il futuro. E allora si ripiega sulla piccola riforma: togliere una rete alla Rai e una a Mediaset (ipotesi suggerita dal bulimico regime di sei reti nazionali) che diventa l'unica grande riforma possibile. Un escamotage per ridisegnare la lottizzazione allargandone i confini a qualche eclave con il suo territorio già picchettato. Ma anche solo accennare a questa redistribuzione della torta, fa rizzare i capelli in testa al comunista Rizzo.
E si capisce, a ogni epoca le sue classi dirigenti. La esiziale commistione tra televisione e politica, che tuttavia, negli anni bernabeiani, configurava una industria culturale fatta dalle élite, via via è degenerata in un'industria senza eccellenza, con una mano d'opera (gli autori) rappresentata da un marketing (commerciale e politico) periferico, residuale.

19 aprile 2006

Democrazie su misura


La democrazia, spesso presentata come il migliore dei sistemi politici, è stata a lungo una forma di governo poco diffusa. Di fatto, nessun regime risponde interamente all'ideale democratico, che presupporrebbe un'onestà totale dei potenti nei riguardi dei deboli, e la condanna veramente radicale di ogni abuso di potere. Andrebbero rispettati cinque indispensabili criteri: libere elezioni; esistenza di un'opposizione politica organizzata e libera; diritto reale all'alternanza politica; esistenza di un sistema giudiziario indipendente dal potere politico; esistenza di media liberi. Il diritto di voto è stato per lungo tempo negato alle donne in diversi stati democratici, quali la Francia e il Regno unito - peraltro potenze coloniali, che calpestavano i diritti dei popoli colonizzati. Malgrado i suoi difetti, questo metodo di governo ha avuto tendenza a universalizzarsi. Dapprima sotto il forte impulso del presidente degli Stati uniti Woodrow Wilson (1856-1924); ma soprattutto dopo la fine della guerra fredda e la scomparsa dell'Unione sovietica.
Fu annunciata allora la «fine della storia», col pretesto che nulla ormai impediva agli Stati dell'intero pianeta di raggiungere un giorno i due traguardi della felicità suprema: l'economia di mercato e la democrazia rappresentativa. Obiettivi che sono divenuti dogmi intoccabili.
In nome di questi dogmi, George W. Bush ha ritenuto legittimo ricorrere alla forza in Iraq. E ha autorizzato le sue forze armate a praticare la tortura nelle carceri segrete dislocate dagli Usa in altri paesi.
O a sottoporre a trattamenti disumani i detenuti del bagno penale di Guantanamo, al di fuori di ogni quadro giuridico - secondo quanto è stato recentemente denunciato da una Commissione dei diritti umani dell'Onu, e in una risoluzione del Parlamento europeo. Ma nonostante queste gravissime violazioni, gli Stati uniti non esitano ad erigersi a istanza planetaria dell'omologazione democratica. Washington ha preso l'abitudine di mortificare i suoi avversari definendoli sistematicamente «non democratici», o addirittura «stati canaglia» o «bastioni della tirannide». Unica condizione per sfuggire a questo marchio d'infamia: organizzare «libere elezioni». Ma anche in questo caso, tutto dipende dai risultati: come dimostra l'esempio del Venezuela, dove dal 1998 il presidente Hugo Chávez è stato eletto a più riprese, in condizioni democratiche garantite da osservatori internazionali. Niente da fare. Washington continua ad accusare Chávez di rappresentare un «pericolo per la democrazia», e nell'aprile 2002 arriva addirittura a fomentare un colpo di stato contro il presidente venezuelano. Nel dicembre di quest'anno Hugo Chávez si sottoporrà nuovamente al verdetto delle urne.
Altri tre esempi - l'Iran, la Palestina e Haiti - mostrano che essere eletti democraticamente non basta più. Nel caso dell'Iran, tutti hanno tributato applausi alle elezioni del giugno 2005: partecipazione massiccia degli elettori, pluralità e diversità dei candidati (nel quadro dell'islamismo ufficiale), e soprattutto, brillante campagna di Ali-Akbar Hachemi Rafsandjani, favorito degli occidentali e dato per vincitore. Nessuno allora ha menzionato il «pericolo nucleare».
Ma tutto è cambiato bruscamente dopo la vittoria di Mahmud Ahmadinejad (che su Israele ha fatto dichiarazioni inaccettabili). Tanto che oggi assistiamo a una demonizzazione dell'Iran.
Sebbene Tehran abbia firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e neghi di voler costruire la bomba, il ministro francese degli affari esteri ha recentemente accusato l'Iran di portare avanti un «programma nucleare militare clandestino»! Frattanto, già dimentica delle recenti elezioni, la segretaria di stato americana Condoleezza Rice chiede al Congresso americano 75 milioni di dollari per finanziare in Iran la «promozione della democrazia»! Stessa situazione, o quasi, in Palestina, dove gli Stati uniti e l'Unione europea, dopo aver insistito per lo svolgimento di elezioni «veramente democratiche», sorvegliate da una miriade di osservatori esteri, ora ne rifiutano il risultato, col pretesto che lo schieramento vincente - il movimento islamico nazionalista Hamas (autore in passato di odiosi attentati contro civili israeliani) non è gradito.
Infine ad Haiti, in occasione delle elezioni presidenziali del 7 febbraio scorso, René Préval ha finito per essere eletto, dopo che era fatto di tutto per impedire la sua vittoria. La «comunità internazionale» non lo voleva a nessun costo, a causa dei suoi legami con l'ex presidente Jean- Bertrand Aristide, lui pure eletto democraticamente e quindi rovesciato nel 2004.
«La democrazia - diceva Winston Churchill - è il peggiore dei regimi, a eccezione di tutti gli altri». Sembra però che oggi dia soprattutto fastidio l'impossibilità di determinare in anticipo il risultato di una consultazione elettorale. C'è chi vorrebbe poter instaurare democrazie su misura. A esito garantito.

di Ignacio Ramonet

17 aprile 2006

La nuova ICI (Io Cambio Idea)

Come volete chiamarla? Mezza vittoria, vittoria ai rigori, vittitta, non-sconfitta, maggioruzza, minimaggianza? Prezioso pareggio, scampato pericolo? No, non mi sento di chiamarla vittoria. Però, è l'inizio di qualcosa che fino a ieri non c'era. E su questo, alcune riflessioni. I coglioni non li abbiamo visti, la figura da coglioni sì. Mi riferisco ai bookmaker inglesi e ai sondaggisti. Ma mentre i bookmaker inglesi hanno pagato regolarmente le giocate, i sondaggisti chi li ha pagati, o chi li dovrà pagare? Non voglio indagare troppo sulla loro scientifica taroccata, Ma se incontro un sondaggista, giuro che gli dirò questo: secondo il mio exitpoll lei ha, nell'immediato futuro, un tredici per cento di possibilità di prendersi un calcio nel culo, un dieci per cento di beccarsi un papagno in faccia, un sette per cento di venir morso all' orecchio, un tre per cento di ginocchiata nei coglioni e un sessantasette per cento che la lasci andare illesa. Ma le mie previsioni potrebbero essere clamorosamente sbagliate. L'avevo scritto prima delle elezioni. Una regola della democrazia, ultimamente in disuso, è quando la maggioranza, larga o risicata che sia, rispetta e ascolta la minoranza. In questa situazione di minimissimi scarti, il governo migliore è quello capace di rispettare anzitutto i suoi elettori, ma anche i bisogni e i desideri dell'altra metà. Si può decidere e avere una linea di governo precisa anche senza una votazione di fiducia al giorno. Berlusconi in cinque anni ne ha avuta la possibilità, e non l'ha mai fatto. Perché dovrebbe farlo adesso? Prodi ne ha possibilità e la responsabilità. Comunque a me la parola Grosse Koalition non spaventa, forse ci sono già state altre grossen, e neanche ce ne siamo accorti. Che la destra faccia i nomi di sei o sette ministri che potrebbero entrare in questa rapida evoluzione del bipartisan. Dovrebbe, penso, tirar fuori della facce nuove: perché tra le vecchie vedo molte facce grosse, ma poco koalition. Preferisco i coerenti, ma comprendo i trasformisti, diceva Ehrich Weiss. Però, per evitare ingorghi, metterei una tassa Ici, sigla che sta per Io Cambio Idea. Chi vuole passare al governo Prodi, o scopre di essere improvvisamente folgorato dal carisma di Rutelli, deve pagare una tassa doganale, più un acconto sui benefici previsti e virtuali. Questo, ovviamente anche in caso di travaso opposto. Gli evasori della nuova Ici dovranno pagare una forte multa che andrà al Fsvti, Fondo di Solidarietà Vittime di Trasformismi Inopportuni e Intempestivi. Mica tutti sono bravi come Vespa. Chi vorrebbe tornare a votare, è pazzo per molti motivi. Il primo è che un nuovo voto non disegnerebbe una maggioranza netta. Il secondo è che nessun pianeta della galassia potrebbe sopportare un'altra campagna elettorale come quella appena conclusa. Il terzo è che una scelta in cui un paese si divide a metà non è una non-scelta, ma una chiarissima scelta. Forse non piace a chi vuole la stabilità, ma esprime il pensiero degli elettori. L'ultima ragione, infine è che i leader non ce la farebbero né mentalmente né fisicamente. Berlusconi non può sparare balle e promesse ancora più colossali. Gli resta solo da dire che, se viene eletto, verrà abolita la morte per cinque anni. E Prodi non può continuare a far finta di sorridere bonario anche quando è chiaramente incazzato come una pantera. Esploderebbe. Non è il caso, adesso, di far troppa ironia sui meno-vittoriosi-degli-altri. Ma una cosa mi va di ricordarla. Il moderato Casini viene a Bologna in campagna elettorale e dice: ci sono dei quartieri che sembrano Harlem. Lasciamo perdere il giudizio sui quartieri, fatto sta che a Harlem ci sono stato, è un quartiere povero, duro, ma anche pieno di musica, di vita e solidarietà. Ma per il moderato Casini è un quartiere nero, quindi sinonimo di quartieraccio. Ecco chi non vorrei dentro una grossa coalizione. Un presidente della camera moderatamente razzista. E come si sono comportati, invece, i politici dell'Unione in campagna elettorale? Colpevolmente, ho visto solo due comizi e ho visto poco la televisione, quasi sempre in un bar tra urla, commenti, applausi e cachinni. Dico solo che, anche se in mille cose la penso diversamente da lei, quella non mi hai mai annoiato è stata Emma Bonino. Il mio sogno? Che un giorno l'Italia non sia più una tendenziale pavocrazia. Cioè una democrazia in cui si vota una parte per paura di quello che ci può fare l'altra parte. Sono anziano e rattoppato, ma ci spero ancora. Per finire, non sono affatto stupito del voto degli italiani all'estero. Quest'anno ho fatto due viaggi, uno in Australia e uno in Germania. E ho visto la voglia di partecipazione, la sincera preoccupazione, il bisogno di capire degli italiani che vivono lontani, anche da tanto tempo. Se posso dare un consiglio a Prodi, dia qualche euro in più ai consolati e agli istituti di cultura esteri, che da anni si vedono decurtare le cifre. Non parlo degli stipendi degli ambasciatori o dei viaggi della nomenclatura. Parlo di quello che serve per organizzare eventi culturali, biblioteche, corsi di lingua, e soprattutto assistenza e aiuto in situazioni di difficoltà. Non occorre una spesa colossale, e sarebbe un provvedimento importante. Colgo quindi l'occasione per rinnovare un invito intercontinentale ad abbonarsi al manifesto. Che a sua volta, grato agli italiani all'estero, si impegna a fare forti sconti per gli abbonati della Patagonia e dell'Antartide. Mi dicono che in ogni punto del mondo sarà possibile ricevere, ogni martedì, il giornale di lunedì. Sull'anno di pubblicazione, non possiamo garantire.

di Stefano Benni