16 febbraio 2006

Gli amici del leopardo


Ali Tariq si sorprende per le manifestazioni musulmane davanti alle ambasciate. Scrive: non hanno, i musulmani, altri e più minacciosi nemici di un vignettista? Eccome. Li hanno addosso: dagli eserciti che hanno fatto la guerra in Iraq e in Afganistan per gli interessi geoeconomici dell'occidente, ai governi arabi che la appoggiano mentre deprivano i loro popoli di tutti i diritti e dell'accesso alla ricchezza del proprio paese, alla supponenza europea nei loro confronti pari soltanto alla codardia verso Bush. Ma contro questo schieramento nemico non hanno né gli strumenti né la forza per reagire. Incassano il peggio, cresce l'esasperazione e mettono fuoco ad alcune tranquille ambasciate che non c'entrano molto. Potrebbero fare di più contro i loro nemici veri e astenersi da una protesta deviata dunque vana e che li isola? Non so. Si può rimproverare loro di non essere all'altezza dello scontro? Si può. Ma una soggettività complessa e all'altezza della sfida presente andava da tempo seminata e alimentata, sostenuta da una solidarietà. Nulla di questo è avvenuto. Che è successo dei tentativi delle loro dirigenze laiche? Chi ha difeso il popolo in questo senso più avanzato, i palestinesi? L'occidente, miope, se ne è guardato bene. Gli Usa hanno utilizzato l'Iraq contro l'Iran e oggi un islam contro l'altro, finendo con il cacciare tutto il Medioriente nel fondamentalismo. E quale alleato avrebbe oggi in Europa un islam che si proponesse di sbaraccare la «guerra infinita» tagliando alle radici il fondamentalismo e la sua coda terrorista? Nessuno. Mi si nomini una sola cancelleria che lo farebbe, un movimento sociale che lo sosterrebbe non solo a parole. Io non ne vedo. Ma non è questo deviare della protesta e della mobilitazione dal vero nemico un vizio soltanto loro, del quale hanno qualche giustificazione. È proprio anche delle nostre società.

Già negli anni `70 Franco Fortini scriveva, sulle tracce di Turkey, che quel che era una volta una discesa in piazza del popolo per ottenere un diritto negato o esigere un bisogno, tende a diventare oggi un'autorappresentazione, puro mezzo di visibilità che poi sparisce per repressione, isolamento, stanchezza. Non è lo stesso la aspirazione attuale di alcuni gruppi molto minoritari a passare da invisibili a visibili, attraverso presenze che più possono essere mediatizzate, a prescindere dall'obiettivo che li ha mossi? E pazienza quando tendono soltanto a questo. Ma sempre più spesso alcuni di essi parassitano movimenti più vasti, che si aggregano fuori di loro, per coinvolgerli in scontri più accesi sia perché li considerano politicamente opportunisti sia per provocare una reazione della polizia. Della quale nulla giustifica l'intervento repressivo. Ma intanto esso ricade inesorabilmente sulle folle mosse da un intento unitario più puntuale, pacifico e tale da mettere in difficoltà i poteri. Non è avvenuto questo con la manifestazione anti Tav della Val di Susa? È il vecchio vizio di chi si definisce avanguardia. La sua vera radice, anche se non confessata, sta nell'impotenza a incidere il blocco avversario. Di qui la tentazione a ripiegare su un simbolo. Il nemico sono oggi gli Stati uniti e le multinazionali, complesso di enormi dimensioni e capacità non solo repressive. La Coca Cola, che è una multinazionale e simbolo della penetrazione americana attraverso i consumi, ha sponsorizzato le Olimpiadi. Né la Coca Cola né le Olimpiadi in quanto tali si potevano attaccare, per cui ci si è attaccati al loro ultimissimo anello: il tedoforo.

La stampa ha dato loro più corda che mai, Repubblica e Corriere hanno titolato per tre giorni la prima pagina: «Torino sotto assedio» per cambiare nel corso d'una sera con: «Torino in festa», facendo finire in un trafiletto interno le poche decine di ragazzi, nessuno dei quali aveva le mani sporche di sangue né di quattrini, che si ritiravano mestamente. L'impotenza si trova nemici e identità sostitutive.

Anche il mio amato Valentino Parlato rischia di farsi prendere da amico del leopardo. Prima che tutti i nostri valorosi colleghi si lanciassero alla ricerca di tutte le tensioni nella coalizione, di destra, sinistra o centro che siano - chi mai, salvo il rispetto, aveva dedicato tre colonne al coerente trotzkista Ferrando? - siamo stati noi, il manifesto a dirci acerbamente delusi dal programma di Prodi. Io mi sono letta quel malloppo - più voluminoso e meno firmato di quello de l'Ernesto - senza delusione alcuna. Non mi ero affatto aspettata di più, come poteva essere? La coalizione si è data e si è formata su un obiettivo primario: battere la Casa delle Libertà. E non è poco, è una condizione della democrazia.

Soltanto con Berlusconi fuori di scena si potrà ricominciare a parlare di politica. Adesso devi badare a quel che dici, ogni differenza di idee è materia di gossip, ogni, dio non voglia, divergenza è enfatizzata come lacerazione incombente e quindi incapacità di governare. Che la Casa della Libertà abbia governato con Bossi e Fini assieme non importa, e giustamente. Avevano in comune l'attacco alla Costituzione, al lavoro e alla cultura, la privatizzazione di tutto e un colpo decisivo allo stato sociale. Questo li teneva uniti. Sulla sponda opposta, da Rutelli a Bertinotti via Prodi e D'Alema hanno in comune la restaurazione di quel che della Costituzione resta, l'abolizione del conflitto di interessi, l'autonomia della magistratura e della Rai e dell'informazione, un qualche equilibrio fra impresa e lavoro. Non è molto, ma va in direzione del tutto diversa. Che poi Rutelli frascheggi con la Udc non importa granché. A breve termine non andrà molto lontano.

Che Prodi sia tirato da una parte e dall'altra, specie da un'Europa senza più trattato né crescita, non sorprende; nella coalizione la crisi dell'ipotesi liberista che sottendeva la Ue è più visibile e più urgente. Che il rapporto con gli Stati uniti e la guerra infinita diventerà terreno bruciante è prevedibile. Che Rifondazione e la Margherita abbiano un'idea diversa della società, del lavoro e della persona, e che i Ds siano stretti a evitare gli errori che li hanno portati a perdere il governo è sicuro. In un paese che Berlusconi ha trovato guasto e ha guastato ulteriormente, a dinamica produttiva e crescita zero, a egoismi crescenti e senso della solidarietà in gran parte perduto, la partita sarà più difficile che non fosse cinque anni fa. Anche da questo è venuta, penso, la difficoltà di indicare quattro precisissime scelte, al di là del restauro di uno stile istituzionale e della divisione dei poteri. Le Tav sono più d'una.

Sarà sul terreno che, stabilito un qualche orizzonte di rimedi al quinquennio, si disegnerà l'approdo. È mia ostinata persuasione che sarà il rapporto di forza e creatività sociale e intellettuale a deciderne le tappe. Per questo darò il voto a Bertinotti pur sapendo che il governo non sarà il suo, e pur essendo meno vicina a lui che non fossi qualche anno fa.

In questo transito ciascuno di noi, il manifesto incluso, sarà costretto a uscire dalla denuncia e dalle vaghezze, capire le priorità e valutare chi mobilitare - il terreno politico che abbiamo scelto sta nella società, non passa per il parlamento e non ne sottovaluta la funzione. Intanto importa che la maggioranza non sia più quella di ora. Se Berlusconi dovesse passare ancora una volta non ci resterebbe - la rivoluzione non essendo all'o.d.g - che elevare alte strida.

di Rossana Rossanda

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