03 novembre 2006

Diritto allo studio?

Un copia-incolla per salvare la vita a questo pseudo-blog:

di Marco Rossi-Doria

Ho riguardato con cura i dati sulla povertà relativa in Italia e nella nostra regione e città.
Mi occupo di povertà da anni perché un indicatore importante del fatto che la scuola pubblica assolva alla sua primaria funzione, in un qualsiasi paese del mondo – secondo tutti i documenti ONU e tutti gli studi - risiede nel fatto che vi sia mobilità sociale ossia che i figli di operai o disoccupati o contadini o impiegati abbiano la scelta di fare cose diverse dai propri genitori e guadagnare anche meglio, che abbiano, dunque, scelte disponibili e opportunità tendenzialmente sempre più uguali agli altri cittadini più fortunati. Si tratta della scuola nella sua funzione di leva per la “discriminazione positiva” che è quella cosa per la quale si dà di più a chi parte svantaggiato e si evita di perpetuare l’ineguaglianza dando cose standard e uguali a persone in condizioni di partenza non uguali. Per i giovani cittadini in crescita questa possibilità di emancipazione dalla condizione di partenza grazie alla scuola pubblica è internazionalmente considerato anche un indicatore di democraticità della società perché è acclarato che maggiore sapere facilita cittadinanza e possibilità partecipative che, a loro volta, nella società della conoscenza, favoriscono competenza deliberativa a livello locale e nazionale. Democrazia e mobilità sociale verticale sono tra loro legate e hanno origine in un buon sistema scolastico pubblico. E il primo passo in questa direzione sta nella possibilità che un figlio o figlia di poveri, grazie alla scuola, non riproduca la condizione di partenza ma, invece, esca dallo stato di povertà.
Chi è un povero oggi in Italia? Si considera povera una famiglia di due persone che vive con meno di 936,58 euro al mese. Si ottiene questa cifra moltiplicando la spesa media pro-capite nel Paese per un coefficiente che calcola le ottimizzazioni ed è al contempo legato al numero dei membri della famiglia. Così un single è povero se guadagna meno di 561,95 euro al mese mentre una famiglia di quattro persone lo è sotto i 1.526,63 euro al mese.
Ebbene. La povertà relativa riguarda l’11,1% della famiglie italiane, ben 7.577.000 persone che sono il 13,1% dell’intera nostra popolazione. La percentuale aumenta per le famiglie con 1 lavoratore dipendente, per quelle con più persone in cerca di occupazione, per le donne sole e per famiglie più numerose, tanto che la percentuale di poveri ragazzi e bambini è maggiore della media. Ma attenzione: quasi tutti questi fattori trovano i picchi al Sud e si tratta, negli ultimi 2 anni, del 24% - 25% della famiglie meridionali – 1 su 4 ! – che sono povere nel Mezzogiorno. Ciò a fronte del 6,0% - 7,3% delle famiglie del Centro dell’Italia e del 4,5% – 4,7% delle famiglie del Nord. Inoltre la percentuale è sostanzialmente ferma per il Centro, è in lieve diminuzione per il Nord ma aumenta, invece, di circa 3 punti percentuali al Sud e l’intensità di povertà – il quanto si è sotto quella soglia – è ben più elevata a Sud.
La situazione in assoluto più grave è quella della Campania dove il 27% delle famiglie è povera e in costante aumento. E, entro la Campania, i picchi della crisi sono le zone metropolitane della Provincia di Napoli e, in modo esponenziale, le periferie e i quartieri interni della città di Napoli in particolare. Se si incrociano questi dati con quelli relativi a disattesa scolastica e fallimento formativo vi è piena corrispondenza: nelle aree territoriali di massima povertà aumenta il fallimento scolastico.
Inoltre la mobilità sociale verticale in Italia è sostanzialmente ferma, in generale, da circa 15 anni ed è chiaramente peggiorata dal periodo 1960- 1980. Allora i figli di operai e braccianti avevano più possibilità di emanciparsi e migliorare di quanto non lo abbiano oggi i figli di operai, impiegati e poveri a lavoro precario. E’ una situazione estrema tra i paesi sviluppati. La mancata mobilità sociale verticale è, poi, letteralmente precipitata nel Sud, in Campania e nell’area di Napoli in modo ancor più grave che altrove. E ciò spiega largamente la ripresa dell’emigrazione interna dalle nostre zone verso il Centro- Nord. La scuola italiana è dunque tra quelle meno capaci di favorire emancipazione, è una scuola più “di classe” delle altre dei cosiddetti paesi sviluppati ed è più “di classe” oggi che ai tempi di Don Milani. Non promette molto ai soggetti più deboli in termini di conoscenze e possibilità di lavoro futuro, non favorisce i processi democratici nella società della conoscenza per chi ne è fuori alla nascita, immette pochi ragazzi più esclusi nei processi di orientamento e nel mercato del lavoro locale, intercetta poco la fascia in assoluto più debole della popolazione adolescenziale che è quella che non termina o termina a stento gli 8 anni di obbligo, consente pochissima formazione continua nelle diverse età della vita in generale e per chi non l’ha fatta prima. Tutti questi indicatori sono ancor più marcati in Campania e a Napoli.
Non tutto dipende dalla scuola e un miglioramento della scuola senza strategie di sviluppo equilibrato sarebbe una politica monca. Tuttavia la scuola deve cambiare. E solo se cambia conserva la sua ragione d’essere. Altrimenti serve per dare buona scuola pubblica quasi gratis a chi ne ha meno bisogno – come acutamente osservava Domenico Starnone qualche anno fa. Questa constatazione significa porsi il problema di cosa cambiare nel modo di fare scuola a favore dell’apprendimento, coinvolgimento e sostegno maggiore ai ragazzi. Qual è la direzione per ritrovare la missione primaria della scuola? Non è facile indicare gli indirizzi. Ma alcune cose sono evidenti. Se i cambiamenti implicano più soldi ai docenti ma anche una trasformazione radicale nel modo di essere docenti in termini di reale maggiore libertà e di maggiore diretta responsabilità sull’organizzazione scolastica e sui processi di apprendimento si va nella direzione giusta. Se si superano le logiche di brutale standardizzazione dei processi di apprendimento a scuola (stesse lezioni, stessi compiti, stessi assetti didattici a tutti) a favore di un sistema misto che salvaguardi cose comuni ma sappia anche differenziare per dare di più o diverso a chi ne ha bisogno si va nella direzione giusta. Se si applica il principio “uguale salario a uguale lavoro” (tanto per usare la formula classica che fu addirittura di Marx ed Engels) e si abbandona la pretesa di dare “uguale salario a tutti” si va nella direzione giusta. Se i soldi vanno a premiare chi sta con i ragazzi e promuove innovazione, al contempo, ma come gruppo di docenti e non come singolo si va nella direzione giusta. Se si smontano le burocrazie e il delirio aziendalista, per di più anacronistico anche nelle aziende, a favore di vera autonomia scolastica per la quale le scuole rispondono al territorio del loro lavoro e concordano le modalità entro le quali possa avvenire una valutazione partecipata e premiano il protagonismo dei gruppi docenti organizzati come comunità di pratiche d’accordo con i dirigenti si va nella direzione giusta. Se si accoglie l’emergenza campana e napoletana e di altre aree di grave crisi nel Mezzogiorno e si dà sostegno straordinario alle buone cose ordinarie che si fanno ogni giorno a scuola e alle azioni che combattono la dispersione scolastica di massa si va nella direzione giusta. Se si premiano le innovazioni che funzionano si va nella direzione giusta. E’ questo di cui si deve discutere. Si tratta di una battaglia difficile e lunga che è “di democrazia”.
Non mi pare che oggi dalle nostre parti si intenda la politica come discussione di merito su queste cose.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Niente pseudo. E' un vero blog. Crescerà e lotterà insieme a noi.