19 novembre 2006

Eccoci?

Prendo una boccata d' aria dopo un week-end soffocante, politicamente parlando, ma non in senso negativo, tutt'altro. Grazie ad amico di Reggio infatti mi sono infiltrato in veste di invitato, con tanto di tesserino di riconoscimento, per due giorni al 3° Congresso del CSP-CSU tenutosi poco fuori Bologna. Il CSP-CSU (che sta per Comitati in difesa della scuola pubblica-Coordinamento studenti universitari) è un' organizzazione, che è nata grazie al lavoro di alcuni ragazzi di Falce e Martello, sull' esempio del Sindicato de Estudiantes formatosi in Spagna con l' intento di rappresentare un soggetto nuovo ed un elemento di discontinuità nel panorama della rappresentanza studentesca che, come dichiarato da me nel post precedente, ha bisogno di rinnovarsi radicalmente. Se da un lato c'è stata indubbiamente un pò di fatica nell' affrontare questa intensa due giorni, dall' altro ho avuto piacevoli sorprese nel conoscere ragazzi molto simpatici e formati politicamente, ospitandone inoltre alcuni a casa mia qui a Bologna. Ho scambiato anche due parole con un ragazzo di Rifondazione della provincia napoletana al quale ho chiesto un parere sulla candidatura di Marco Rossi-Doria del quale mi ha parlato come mero vertice di un movimento di "borghesi intellettuali", quindi non ho insistito più di tanto, anche se la sua eventuale elezione a sindaco, ritengo, soprattutto alla luce di quello che è accaduto qualche settimana fa, avrebbe potuto rappresentare veramente una svolta nel contesto napoletano. Nonostante questa piccola macchiolina si è discusso anche della situazione bolognese che, a livello di rappresentanza studentesca universitaria, è in pieno stallo e si è parlato quindi di mettere su anche quì una "sezione" del CSU, mentre, per quanto riguarda la componente del CSP, a Bologna, il lavoro è già stato iniziato e con buoni risultati. Molto probabilmente non resterà che dire: al lavoro!

15 novembre 2006

Rieccoci...

In vista della manifestazione del 17 novembre il dibattito mediatico su università e ricerca è vivo. Articoli come quelli di Margherita Hack e di Pietro Reichlin illustrano a mio avviso bene la situazione che ci troviamo di fronte, una delle numerose anomalie all' italiana. Per evitare però di essere ripetitivo in queste due righe volevo analizzare lo status quo da un punto di vista diverso e poco preso in considerazione: gli studenti. Gli studenti in quanto soggetti che usufruiscono del servizio erogato dalla scuola pubblica, in quanto futuri cittadini, in quanto base fondamentale per ridare slancio al paese e di conseguenza centro di questo sistema scolastico che a volte pare dimenticarseli. Venerdì in molte città italiane scenderanno in piazza per protestare contro l'inadeguatezza di questo governo e della sua finanziaria dalle mille facce. Ma siamo sicuri che gli studenti siano esclusivamente le vittime sacrificali di Padoa-Schioppa adesso e della Moratti prima? Quanta responsabilità hanno gli studenti in questa situazione? Se da un lato critichiamo duramente il Governo per la sua inadeguatezza secondo me va fatto lo stesso nei loro (nostri) confronti. Credo che se vogliamo rivendicare un ruolo da protagonisti non possiamo aspettare che questo venga calato dall' alto senza muovere un dito oppure come conseguenza di qualche corteo male organizzato, ma deve essere il risultato di un' impegno consapevole, costante e di tutti. La riprova della nostra inadeguatezza in quanto popolazione studentesca l' ho avuta pochi giorni fa ad una assemblea dei collettivi autonomi, in vista della manifestazione di venerdì a Bologna, dove un ragazzo di Rifondazione ha criticato in maniera seria e pacata le modalità di protesta e dibattito degli stessi collettivi attirandosi repliche violente e non democratiche, in primis perchè legato ad un partito. La reazione dei presenti (per altro pochi) è stata fuori luogo ed a tratti fascita, ma la cosa preoccupante è stata la poca capacità di ascoltare e di autocritica che i ragazzi hanno dimostrato di avere, nonostante si "professassero" di sinistra. Una reazione drammaticamente simile a quella dei politici nostrani, avversi alle critiche.
Se dobbiamo cambiare qualcosa in questo paese c'è quindi bisogno di ripensare anche il soggetto studentesco per creare un conflitto sociale vero e non un surrogato già confezionato, che non crei mostri come Muccino in "Come te nessuno mai", ma consapevolezza anche nello studente non politicizzato e menefreghista.

03 novembre 2006

Diritto allo studio?

Un copia-incolla per salvare la vita a questo pseudo-blog:

di Marco Rossi-Doria

Ho riguardato con cura i dati sulla povertà relativa in Italia e nella nostra regione e città.
Mi occupo di povertà da anni perché un indicatore importante del fatto che la scuola pubblica assolva alla sua primaria funzione, in un qualsiasi paese del mondo – secondo tutti i documenti ONU e tutti gli studi - risiede nel fatto che vi sia mobilità sociale ossia che i figli di operai o disoccupati o contadini o impiegati abbiano la scelta di fare cose diverse dai propri genitori e guadagnare anche meglio, che abbiano, dunque, scelte disponibili e opportunità tendenzialmente sempre più uguali agli altri cittadini più fortunati. Si tratta della scuola nella sua funzione di leva per la “discriminazione positiva” che è quella cosa per la quale si dà di più a chi parte svantaggiato e si evita di perpetuare l’ineguaglianza dando cose standard e uguali a persone in condizioni di partenza non uguali. Per i giovani cittadini in crescita questa possibilità di emancipazione dalla condizione di partenza grazie alla scuola pubblica è internazionalmente considerato anche un indicatore di democraticità della società perché è acclarato che maggiore sapere facilita cittadinanza e possibilità partecipative che, a loro volta, nella società della conoscenza, favoriscono competenza deliberativa a livello locale e nazionale. Democrazia e mobilità sociale verticale sono tra loro legate e hanno origine in un buon sistema scolastico pubblico. E il primo passo in questa direzione sta nella possibilità che un figlio o figlia di poveri, grazie alla scuola, non riproduca la condizione di partenza ma, invece, esca dallo stato di povertà.
Chi è un povero oggi in Italia? Si considera povera una famiglia di due persone che vive con meno di 936,58 euro al mese. Si ottiene questa cifra moltiplicando la spesa media pro-capite nel Paese per un coefficiente che calcola le ottimizzazioni ed è al contempo legato al numero dei membri della famiglia. Così un single è povero se guadagna meno di 561,95 euro al mese mentre una famiglia di quattro persone lo è sotto i 1.526,63 euro al mese.
Ebbene. La povertà relativa riguarda l’11,1% della famiglie italiane, ben 7.577.000 persone che sono il 13,1% dell’intera nostra popolazione. La percentuale aumenta per le famiglie con 1 lavoratore dipendente, per quelle con più persone in cerca di occupazione, per le donne sole e per famiglie più numerose, tanto che la percentuale di poveri ragazzi e bambini è maggiore della media. Ma attenzione: quasi tutti questi fattori trovano i picchi al Sud e si tratta, negli ultimi 2 anni, del 24% - 25% della famiglie meridionali – 1 su 4 ! – che sono povere nel Mezzogiorno. Ciò a fronte del 6,0% - 7,3% delle famiglie del Centro dell’Italia e del 4,5% – 4,7% delle famiglie del Nord. Inoltre la percentuale è sostanzialmente ferma per il Centro, è in lieve diminuzione per il Nord ma aumenta, invece, di circa 3 punti percentuali al Sud e l’intensità di povertà – il quanto si è sotto quella soglia – è ben più elevata a Sud.
La situazione in assoluto più grave è quella della Campania dove il 27% delle famiglie è povera e in costante aumento. E, entro la Campania, i picchi della crisi sono le zone metropolitane della Provincia di Napoli e, in modo esponenziale, le periferie e i quartieri interni della città di Napoli in particolare. Se si incrociano questi dati con quelli relativi a disattesa scolastica e fallimento formativo vi è piena corrispondenza: nelle aree territoriali di massima povertà aumenta il fallimento scolastico.
Inoltre la mobilità sociale verticale in Italia è sostanzialmente ferma, in generale, da circa 15 anni ed è chiaramente peggiorata dal periodo 1960- 1980. Allora i figli di operai e braccianti avevano più possibilità di emanciparsi e migliorare di quanto non lo abbiano oggi i figli di operai, impiegati e poveri a lavoro precario. E’ una situazione estrema tra i paesi sviluppati. La mancata mobilità sociale verticale è, poi, letteralmente precipitata nel Sud, in Campania e nell’area di Napoli in modo ancor più grave che altrove. E ciò spiega largamente la ripresa dell’emigrazione interna dalle nostre zone verso il Centro- Nord. La scuola italiana è dunque tra quelle meno capaci di favorire emancipazione, è una scuola più “di classe” delle altre dei cosiddetti paesi sviluppati ed è più “di classe” oggi che ai tempi di Don Milani. Non promette molto ai soggetti più deboli in termini di conoscenze e possibilità di lavoro futuro, non favorisce i processi democratici nella società della conoscenza per chi ne è fuori alla nascita, immette pochi ragazzi più esclusi nei processi di orientamento e nel mercato del lavoro locale, intercetta poco la fascia in assoluto più debole della popolazione adolescenziale che è quella che non termina o termina a stento gli 8 anni di obbligo, consente pochissima formazione continua nelle diverse età della vita in generale e per chi non l’ha fatta prima. Tutti questi indicatori sono ancor più marcati in Campania e a Napoli.
Non tutto dipende dalla scuola e un miglioramento della scuola senza strategie di sviluppo equilibrato sarebbe una politica monca. Tuttavia la scuola deve cambiare. E solo se cambia conserva la sua ragione d’essere. Altrimenti serve per dare buona scuola pubblica quasi gratis a chi ne ha meno bisogno – come acutamente osservava Domenico Starnone qualche anno fa. Questa constatazione significa porsi il problema di cosa cambiare nel modo di fare scuola a favore dell’apprendimento, coinvolgimento e sostegno maggiore ai ragazzi. Qual è la direzione per ritrovare la missione primaria della scuola? Non è facile indicare gli indirizzi. Ma alcune cose sono evidenti. Se i cambiamenti implicano più soldi ai docenti ma anche una trasformazione radicale nel modo di essere docenti in termini di reale maggiore libertà e di maggiore diretta responsabilità sull’organizzazione scolastica e sui processi di apprendimento si va nella direzione giusta. Se si superano le logiche di brutale standardizzazione dei processi di apprendimento a scuola (stesse lezioni, stessi compiti, stessi assetti didattici a tutti) a favore di un sistema misto che salvaguardi cose comuni ma sappia anche differenziare per dare di più o diverso a chi ne ha bisogno si va nella direzione giusta. Se si applica il principio “uguale salario a uguale lavoro” (tanto per usare la formula classica che fu addirittura di Marx ed Engels) e si abbandona la pretesa di dare “uguale salario a tutti” si va nella direzione giusta. Se i soldi vanno a premiare chi sta con i ragazzi e promuove innovazione, al contempo, ma come gruppo di docenti e non come singolo si va nella direzione giusta. Se si smontano le burocrazie e il delirio aziendalista, per di più anacronistico anche nelle aziende, a favore di vera autonomia scolastica per la quale le scuole rispondono al territorio del loro lavoro e concordano le modalità entro le quali possa avvenire una valutazione partecipata e premiano il protagonismo dei gruppi docenti organizzati come comunità di pratiche d’accordo con i dirigenti si va nella direzione giusta. Se si accoglie l’emergenza campana e napoletana e di altre aree di grave crisi nel Mezzogiorno e si dà sostegno straordinario alle buone cose ordinarie che si fanno ogni giorno a scuola e alle azioni che combattono la dispersione scolastica di massa si va nella direzione giusta. Se si premiano le innovazioni che funzionano si va nella direzione giusta. E’ questo di cui si deve discutere. Si tratta di una battaglia difficile e lunga che è “di democrazia”.
Non mi pare che oggi dalle nostre parti si intenda la politica come discussione di merito su queste cose.