È coralmente accettato che l'università italiana è allo stremo. Al di là di sporadiche voci a sua difesa dettate da interessi di bottega, gli osservatori indipendenti - a cominciare dal Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi - concordano sul declino della nostra accademia. Nelle graduatorie internazionali non vi è traccia delle università italiane: scomparse. Non se ne trova alcuna tra le principali dieci al mondo; ma neanche tra le principali dieci in Europa (sette inglesi, due francesi e una svizzera). Se si consulta la classifica di Webometrics oppure quella del Times degli atenei del mondo, dopo innumerevoli bandiere a stelle a strisce, diverse bandiere di sua maestà britannica, qualche tricolore francese e un certo numero di bandiere tedesche, si scorge una bandierina bianca rossa e verde al centocinquantatreesimo posto. Tiriamo un sospiro di sollievo? Sì, ma solo per poco: è l'Universad Nacional Autonoma de Mexico. La prima italiana, Bologna, appare al centonovantaquattresimo. È la stessa che nel XIII e XIV secolo era la miglior accademia al mondo e attraeva studenti da tutta Europa, oggi è ridotta al rango di università di provincia. Alcuni anni fa, durante una visita all'università felsinea, mi fu riferito che l'allora rettore stimava il distacco del suo ateneo dalla frontiera della ricerca accademica in 30-50 anni. Significa che la ricerca che oggi produce in media la miglior università italiana è del livello di quella che Harvard - la frontiera odierna - produceva tra il 1950 e il 1970. È come se nel 2006 la Fiat fosse solo in grado di progettare e immettere nel mercato l'850 color caffèlatte senza marmitta catalittica o, al meglio, la Fiat 127: gloriose (forse) allora, invendibili oggi. Ma le auto caffèlatte sono finite fuori mercato, i professori no. Non c'è mercato che li minacci, non c'è concorrenza che li disciplini. Anzi, controllando gli accessi sono anche in grado di eliminare pericolosi concorrenti, ovvero i ricercatori più bravi, come Roberto Perotti ha più volte documentato su questo sito.
Una ricetta semplice
Capire le cause del collasso è utile e molti lo hanno fatto. Ma più importante è dire come rimediare. Un bel rompicapo anche per un ministro di buona volontà e di talento come l'onorevole Fabio Mussi. In un articolo sul Sole-24Ore di qualche giorno fa, Luigi Zingales ha proposto di risolvere il problema nell'unico modo possibile: iniettando dosi di concorrenza nel sistema universitario. La proposta di Zingales vuole fornire gli incentivi giusti per accrescere ciò che più manca alle nostre università: la qualità. Se gli studenti pagano (usando il prestito statale), hanno incentivo a pretendere; poiché il valore legale è abolito, ciò che conta è la reputazione dell'università e quindi la sua qualità. Studenti di miglior talento sono interessati a scegliere le università migliori e le università hanno incentivo ad attrarli.Per poterlo fare devono migliorare la qualità, quindi assumere docenti di calibro - anziché amici, parenti e portaborse - e fornire incentivi giusti a quelli esistenti. L'autonomia contabile e organizzativa è il corollario: per poter sviluppare la sua politica, ciascuna università deve avere libertà di manovra. Chi abusa di questa libertà ne pagherà le conseguenze perché attrarrà meno studenti e di minor qualità e quindi meno risorse.Il meccanismo è impeccabile. È anche implementabile? Sì, se si volesse, ma al ministro Mussi non piace. La sua obiezione è che quel meccanismo porterebbe rapidamente alla nascita "dell'università dei predestinati". Ma non è già così, signor ministro? Non abbiamo già una università di predestinati, siano essi i professori iperprotetti o gli studenti destinati al lavoro con titoli di studio senza un mercato? Se la proposta Zingales è troppo rivoluzionaria, le propongo una alternativa meno dirompente, ma ugualmente efficace: passi all’attuazione del sistema di valutazione della ricerca condotta lo scorso anno in via sperimentale dal Civr e condizioni una quota significativa, ad esempio un terzo, dei trasferimenti dello Stato alle università alla qualità della ricerca che vi si produce. Gli atenei che producono più ricerca di elevato livello - e solo quelli - ottengono più fondi delle altre; poiché la ricerca di qualità è condotta da ricercatori di talento, gli atenei competeranno per attrarre i migliori. I ricercatori di talento hanno un interesse prioritario a mantenere e accrescere il loro "capitale umano" e sanno che uno dei modi per farlo è attrarre altri ricercatori di elevata qualità con cui interagire e lavorare. In modo del tutto naturale useranno il merito, e si batteranno perché tutti lo facciano, come unico criterio di selezione dei professori, avviando il processo di ripresa delle università. Come vede la ricetta è semplice: una regola ferrea di allocazione dei fondi ai migliori; libertà di decisione alle università. Non c'è bisogno di Grandi Riforme, i cui beneficiari finora sono stati soprattutto i loro estensori.
da lavoce.info
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