19 novembre 2006

Eccoci?

Prendo una boccata d' aria dopo un week-end soffocante, politicamente parlando, ma non in senso negativo, tutt'altro. Grazie ad amico di Reggio infatti mi sono infiltrato in veste di invitato, con tanto di tesserino di riconoscimento, per due giorni al 3° Congresso del CSP-CSU tenutosi poco fuori Bologna. Il CSP-CSU (che sta per Comitati in difesa della scuola pubblica-Coordinamento studenti universitari) è un' organizzazione, che è nata grazie al lavoro di alcuni ragazzi di Falce e Martello, sull' esempio del Sindicato de Estudiantes formatosi in Spagna con l' intento di rappresentare un soggetto nuovo ed un elemento di discontinuità nel panorama della rappresentanza studentesca che, come dichiarato da me nel post precedente, ha bisogno di rinnovarsi radicalmente. Se da un lato c'è stata indubbiamente un pò di fatica nell' affrontare questa intensa due giorni, dall' altro ho avuto piacevoli sorprese nel conoscere ragazzi molto simpatici e formati politicamente, ospitandone inoltre alcuni a casa mia qui a Bologna. Ho scambiato anche due parole con un ragazzo di Rifondazione della provincia napoletana al quale ho chiesto un parere sulla candidatura di Marco Rossi-Doria del quale mi ha parlato come mero vertice di un movimento di "borghesi intellettuali", quindi non ho insistito più di tanto, anche se la sua eventuale elezione a sindaco, ritengo, soprattutto alla luce di quello che è accaduto qualche settimana fa, avrebbe potuto rappresentare veramente una svolta nel contesto napoletano. Nonostante questa piccola macchiolina si è discusso anche della situazione bolognese che, a livello di rappresentanza studentesca universitaria, è in pieno stallo e si è parlato quindi di mettere su anche quì una "sezione" del CSU, mentre, per quanto riguarda la componente del CSP, a Bologna, il lavoro è già stato iniziato e con buoni risultati. Molto probabilmente non resterà che dire: al lavoro!

15 novembre 2006

Rieccoci...

In vista della manifestazione del 17 novembre il dibattito mediatico su università e ricerca è vivo. Articoli come quelli di Margherita Hack e di Pietro Reichlin illustrano a mio avviso bene la situazione che ci troviamo di fronte, una delle numerose anomalie all' italiana. Per evitare però di essere ripetitivo in queste due righe volevo analizzare lo status quo da un punto di vista diverso e poco preso in considerazione: gli studenti. Gli studenti in quanto soggetti che usufruiscono del servizio erogato dalla scuola pubblica, in quanto futuri cittadini, in quanto base fondamentale per ridare slancio al paese e di conseguenza centro di questo sistema scolastico che a volte pare dimenticarseli. Venerdì in molte città italiane scenderanno in piazza per protestare contro l'inadeguatezza di questo governo e della sua finanziaria dalle mille facce. Ma siamo sicuri che gli studenti siano esclusivamente le vittime sacrificali di Padoa-Schioppa adesso e della Moratti prima? Quanta responsabilità hanno gli studenti in questa situazione? Se da un lato critichiamo duramente il Governo per la sua inadeguatezza secondo me va fatto lo stesso nei loro (nostri) confronti. Credo che se vogliamo rivendicare un ruolo da protagonisti non possiamo aspettare che questo venga calato dall' alto senza muovere un dito oppure come conseguenza di qualche corteo male organizzato, ma deve essere il risultato di un' impegno consapevole, costante e di tutti. La riprova della nostra inadeguatezza in quanto popolazione studentesca l' ho avuta pochi giorni fa ad una assemblea dei collettivi autonomi, in vista della manifestazione di venerdì a Bologna, dove un ragazzo di Rifondazione ha criticato in maniera seria e pacata le modalità di protesta e dibattito degli stessi collettivi attirandosi repliche violente e non democratiche, in primis perchè legato ad un partito. La reazione dei presenti (per altro pochi) è stata fuori luogo ed a tratti fascita, ma la cosa preoccupante è stata la poca capacità di ascoltare e di autocritica che i ragazzi hanno dimostrato di avere, nonostante si "professassero" di sinistra. Una reazione drammaticamente simile a quella dei politici nostrani, avversi alle critiche.
Se dobbiamo cambiare qualcosa in questo paese c'è quindi bisogno di ripensare anche il soggetto studentesco per creare un conflitto sociale vero e non un surrogato già confezionato, che non crei mostri come Muccino in "Come te nessuno mai", ma consapevolezza anche nello studente non politicizzato e menefreghista.

03 novembre 2006

Diritto allo studio?

Un copia-incolla per salvare la vita a questo pseudo-blog:

di Marco Rossi-Doria

Ho riguardato con cura i dati sulla povertà relativa in Italia e nella nostra regione e città.
Mi occupo di povertà da anni perché un indicatore importante del fatto che la scuola pubblica assolva alla sua primaria funzione, in un qualsiasi paese del mondo – secondo tutti i documenti ONU e tutti gli studi - risiede nel fatto che vi sia mobilità sociale ossia che i figli di operai o disoccupati o contadini o impiegati abbiano la scelta di fare cose diverse dai propri genitori e guadagnare anche meglio, che abbiano, dunque, scelte disponibili e opportunità tendenzialmente sempre più uguali agli altri cittadini più fortunati. Si tratta della scuola nella sua funzione di leva per la “discriminazione positiva” che è quella cosa per la quale si dà di più a chi parte svantaggiato e si evita di perpetuare l’ineguaglianza dando cose standard e uguali a persone in condizioni di partenza non uguali. Per i giovani cittadini in crescita questa possibilità di emancipazione dalla condizione di partenza grazie alla scuola pubblica è internazionalmente considerato anche un indicatore di democraticità della società perché è acclarato che maggiore sapere facilita cittadinanza e possibilità partecipative che, a loro volta, nella società della conoscenza, favoriscono competenza deliberativa a livello locale e nazionale. Democrazia e mobilità sociale verticale sono tra loro legate e hanno origine in un buon sistema scolastico pubblico. E il primo passo in questa direzione sta nella possibilità che un figlio o figlia di poveri, grazie alla scuola, non riproduca la condizione di partenza ma, invece, esca dallo stato di povertà.
Chi è un povero oggi in Italia? Si considera povera una famiglia di due persone che vive con meno di 936,58 euro al mese. Si ottiene questa cifra moltiplicando la spesa media pro-capite nel Paese per un coefficiente che calcola le ottimizzazioni ed è al contempo legato al numero dei membri della famiglia. Così un single è povero se guadagna meno di 561,95 euro al mese mentre una famiglia di quattro persone lo è sotto i 1.526,63 euro al mese.
Ebbene. La povertà relativa riguarda l’11,1% della famiglie italiane, ben 7.577.000 persone che sono il 13,1% dell’intera nostra popolazione. La percentuale aumenta per le famiglie con 1 lavoratore dipendente, per quelle con più persone in cerca di occupazione, per le donne sole e per famiglie più numerose, tanto che la percentuale di poveri ragazzi e bambini è maggiore della media. Ma attenzione: quasi tutti questi fattori trovano i picchi al Sud e si tratta, negli ultimi 2 anni, del 24% - 25% della famiglie meridionali – 1 su 4 ! – che sono povere nel Mezzogiorno. Ciò a fronte del 6,0% - 7,3% delle famiglie del Centro dell’Italia e del 4,5% – 4,7% delle famiglie del Nord. Inoltre la percentuale è sostanzialmente ferma per il Centro, è in lieve diminuzione per il Nord ma aumenta, invece, di circa 3 punti percentuali al Sud e l’intensità di povertà – il quanto si è sotto quella soglia – è ben più elevata a Sud.
La situazione in assoluto più grave è quella della Campania dove il 27% delle famiglie è povera e in costante aumento. E, entro la Campania, i picchi della crisi sono le zone metropolitane della Provincia di Napoli e, in modo esponenziale, le periferie e i quartieri interni della città di Napoli in particolare. Se si incrociano questi dati con quelli relativi a disattesa scolastica e fallimento formativo vi è piena corrispondenza: nelle aree territoriali di massima povertà aumenta il fallimento scolastico.
Inoltre la mobilità sociale verticale in Italia è sostanzialmente ferma, in generale, da circa 15 anni ed è chiaramente peggiorata dal periodo 1960- 1980. Allora i figli di operai e braccianti avevano più possibilità di emanciparsi e migliorare di quanto non lo abbiano oggi i figli di operai, impiegati e poveri a lavoro precario. E’ una situazione estrema tra i paesi sviluppati. La mancata mobilità sociale verticale è, poi, letteralmente precipitata nel Sud, in Campania e nell’area di Napoli in modo ancor più grave che altrove. E ciò spiega largamente la ripresa dell’emigrazione interna dalle nostre zone verso il Centro- Nord. La scuola italiana è dunque tra quelle meno capaci di favorire emancipazione, è una scuola più “di classe” delle altre dei cosiddetti paesi sviluppati ed è più “di classe” oggi che ai tempi di Don Milani. Non promette molto ai soggetti più deboli in termini di conoscenze e possibilità di lavoro futuro, non favorisce i processi democratici nella società della conoscenza per chi ne è fuori alla nascita, immette pochi ragazzi più esclusi nei processi di orientamento e nel mercato del lavoro locale, intercetta poco la fascia in assoluto più debole della popolazione adolescenziale che è quella che non termina o termina a stento gli 8 anni di obbligo, consente pochissima formazione continua nelle diverse età della vita in generale e per chi non l’ha fatta prima. Tutti questi indicatori sono ancor più marcati in Campania e a Napoli.
Non tutto dipende dalla scuola e un miglioramento della scuola senza strategie di sviluppo equilibrato sarebbe una politica monca. Tuttavia la scuola deve cambiare. E solo se cambia conserva la sua ragione d’essere. Altrimenti serve per dare buona scuola pubblica quasi gratis a chi ne ha meno bisogno – come acutamente osservava Domenico Starnone qualche anno fa. Questa constatazione significa porsi il problema di cosa cambiare nel modo di fare scuola a favore dell’apprendimento, coinvolgimento e sostegno maggiore ai ragazzi. Qual è la direzione per ritrovare la missione primaria della scuola? Non è facile indicare gli indirizzi. Ma alcune cose sono evidenti. Se i cambiamenti implicano più soldi ai docenti ma anche una trasformazione radicale nel modo di essere docenti in termini di reale maggiore libertà e di maggiore diretta responsabilità sull’organizzazione scolastica e sui processi di apprendimento si va nella direzione giusta. Se si superano le logiche di brutale standardizzazione dei processi di apprendimento a scuola (stesse lezioni, stessi compiti, stessi assetti didattici a tutti) a favore di un sistema misto che salvaguardi cose comuni ma sappia anche differenziare per dare di più o diverso a chi ne ha bisogno si va nella direzione giusta. Se si applica il principio “uguale salario a uguale lavoro” (tanto per usare la formula classica che fu addirittura di Marx ed Engels) e si abbandona la pretesa di dare “uguale salario a tutti” si va nella direzione giusta. Se i soldi vanno a premiare chi sta con i ragazzi e promuove innovazione, al contempo, ma come gruppo di docenti e non come singolo si va nella direzione giusta. Se si smontano le burocrazie e il delirio aziendalista, per di più anacronistico anche nelle aziende, a favore di vera autonomia scolastica per la quale le scuole rispondono al territorio del loro lavoro e concordano le modalità entro le quali possa avvenire una valutazione partecipata e premiano il protagonismo dei gruppi docenti organizzati come comunità di pratiche d’accordo con i dirigenti si va nella direzione giusta. Se si accoglie l’emergenza campana e napoletana e di altre aree di grave crisi nel Mezzogiorno e si dà sostegno straordinario alle buone cose ordinarie che si fanno ogni giorno a scuola e alle azioni che combattono la dispersione scolastica di massa si va nella direzione giusta. Se si premiano le innovazioni che funzionano si va nella direzione giusta. E’ questo di cui si deve discutere. Si tratta di una battaglia difficile e lunga che è “di democrazia”.
Non mi pare che oggi dalle nostre parti si intenda la politica come discussione di merito su queste cose.

24 luglio 2006

Indulto? No grazie...

Lettera di Di Pietro a Beppe Grillo:

Caro Beppe,

a pochi mesi dalle elezioni ho deciso di scriverti una lettera che spero tu possa pubblicare sul blog. Domani Unione e Cdl voteranno a favore di una legge, quella sull’indulto, che non era prevista nel programma dell’Unione e che io ritengo del tutto estranea alla volontà degli elettori del centrosinistra. Questa legge, nata per liberare le carceri, è stata estesa ai reati di falso in bilancio, corruzione, reati fiscali e finanziari anche nei confronti della Pubblica amministrazione.
Neppure il governo Berlusconi era arrivato a tanto. E’ un colpo di spugna che viene effettuato nel pieno del periodo estivo. Un atto gravissimo del quale è riportata un’informazione parziale, e spesso strumentale, da parte di giornali e televisioni. Il tuo blog, forse, può darne una diffusione maggiore e soprattutto libera.
Sono profondamente contrario al fatto che l’accordo per l’approvazione dell’indulto si basi su uno scambio politico con Forza Italia, in quanto prevede l’inclusione di reati per i quali vi sono processi e condanne di esponenti, anche di primo piano, della Casa delle Libertà. Se l’indulto passasse così com’è, tutti i fatti di mala amministrazione e di mala attività imprenditoriale, rimarrebbero impuniti. Si tratta di persone colpevoli di reati come tangentopoli, calciopoli, bancopoli. Persone che hanno occupato le indagini delle magistrature e le prime pagine dei giornali in questi ultimi anni.
Io ho scritto ai leader dei partiti dell’Unione per un vertice in cui discutere dell’indulto. Non ho avuto risposta. Nel Consiglio dei ministri dello scorso venerdì ho sottolineato la gravità di questa legge, contraria agli interessi dei cittadini, ma utile alle consorterie dei partiti.

Ho minacciato le dimissioni da ministro nella più totale indifferenza dei colleghi. L’Idv è il quarto partito della coalizione con 25 rappresentanti tra Camera e Senato. La sua uscita dalla coalizione può far cadere il Governo, ma io non mi sento di ritornare alle urne e, forse, di riconsegnare il Paese a Berlusconi.
L’Unione ha posto il veto sui nostri emendamenti per l’esclusione dei reati finanziari, societari e di corruzione dall’indulto. Lunedì e martedì prossimo l’Italia dei Valori farà tutto quello che è in suo potere per rallentare l’approvazione della legge sull’indulto attraverso una serie di emendamenti. L’Italia merita altri politici, altri governi. Non deve essere costretta a scegliere tra il peggio e il meno peggio, come tu spesso dici.
L’Italia dei Valori, da sola non può cambiare, questo Paese. Gli italiani devono fare sentire e forte la loro voce, in tutti i modi legittimi possibili, per evitare un ennesimo passo indietro della democrazia”.

Antonio Di Pietro.

19 luglio 2006

Israele è sola

Sono preoccupata - molto - per tutti quegli ebrei di origine assai diversa che hanno deciso di essere israeliani. Condivido l'allarme di questi giorni sulla sorte del paese che hanno creato. Comepotrà infatti mai sentirsi sicuro uno stato che ha fatto crescere attorno a sé tanto odio? Come potrà mai legittimare davvero la sua esistenza, non nelle istanze istituzionali dove è più che riconosciutoma nella coscienza deimilioni di arabi che gli vivono accanto e che per ragioni analoghe a quelle della diaspora ebraica si sentono anche loro fra loro solidali, se non assumendo il problema del popolo che la costituzione del loro stato ha lasciato senza patria né casa? Come potrà il governo di Tel Aviv invocare l'applicazione - sacrosanta - della risoluzione 1559 dell'Onu che ingiunge a Hezbollah di disarmare, quando ha, esso stesso, damezzo secolo, ignorato ogni altra risoluzione delle Nazioni Unite, a cominciare dalla, fondamentale, 242 che gli ingiungeva di ritirarsi entro i confini del '48?Comepotrà rendere convincente la propria voce che si accompagna a quella del suo altrettanto incosciente alleato americanonel rivendicare l'intervento armato contro l'Iran perché pretende di possedere un potenziale nucleare, quando Israele stessa lo possiede in violazione di ogni norma internazionale? Come potranno raccogliere adesione nella denuncia degli orrendi regimi dell'Iran, di SaddamHussein, dei Talebani, quando intrattengono ottime relazioni con altrettanto orrendi regimi reazionari (a cominciare da quelli del Golfo), e di fronte al disastro cui ha condotto l'intervento «democratizzatore» degli americani? Come potrà chiedere solidarietà contro la minaccia di Ahmadinejad, di Hamas, di Hezbollah, che rifiutano di riconoscere ufficialmente lo stato d'Israele, quando ogni giorno non solo insidiama rende risibile ogni prospettiva di creare uno stato palestinese, che infatti ancora non c'è, né mai ci potrà essere fino a quando a quel mozzicone di terra che dovrebbe costituirne l'embrione è negato ogni attributo di sovranità, del controllo delle proprie frontiere, economia e risorse, esposto al kidnapping e all'assassinio dei propri rappresentanti democraticamente eletti, ridotto a peggio di un bantustan nell'Africa dell'apartheid? Come potrà ottenere una reale accettazione della propria esistenza e far dimenticare le sofferenze e privazioni inaudite che la creazione di Israele ha imposto a chi ci abitava ed ebreo non era, se non col coraggio di ragionare sulla rispettiva storia e cercare con umiltà un compromesso, non negando con arroganza i diritti degli altri, mariconoscendoli e chiedendo però che anche gli altri riconoscano i propri? Comemai sarà possibile cancellare dalla memoria dei propri vicini le stragi quotidiane di innocenti, l'aver ridotto la Striscia di Gaza a un campodi concentramento esposto alle incursioni, senza acqua, cibo e lavoro? Come potrà sentirsi più forte ora che si è giocato ogni simpatia anche in Libano? Sgomenta in queste ore, ancor più che la sostanziale indifferenza verso le vittime, la cecità e l'incoscienza di chi si pretende amico di Israele e che, pur vivendo altrove, dovrebbe dunque avere il vantaggiodella lungimiranza che dà la distanza. E invece scelgono di aggiungere le loro grida alle grida della più irragionevole, furiosa e primitiva reazione, anziché richiamare quel governo alla ragione, farlo riflettere sull'errore tremendo di aver volutamente bruciato l'interlocutore migliore che avrebbe potuto avere, la laica Olp, e di detenere tuttora i suoi uomini più lucidi in galera, così aiutando il popolo israeliano a capire che la vera sicurezza del paese può esser conquistata solo per via politica, creando legami sociali culturali economici con i propri vicini, dando sicurezza e noninsicurezza ai palestinesi. E' vero: Israele è sola. Avere dalla sua il paese più potente del mondo, e con esso i suoi vassalli -media governi imprese - non riduce il suo isolamento. A chi sta a cuore salvare questo stato deve smetterla con questa mortifera, pericolosa, cieca solidarietà.

di Luciana Castellina

07 luglio 2006

Fascisti, brava gente.


Il 21 gennaio scorso Tommaso Paternoster e Alessandro Caparezzi, rispettivamente 22 e 33 anni, hanno aggredito un ragazzo in pieno centro a Bologna. Quest' ultimo aveva la "colpa" di indossare una spilla antinazista. I due hanno prima intimato al ragazzo di toglierla e di fronte al rifiuto sono passati alle mani. Risultato: dieci giorni di prognosi. Denunciati e arrestati i due fascisti al momento del fermo sono stati trovati con: coltello a serramanico, coltello "ordinario", noccoliera con punte acuminate, manganello telescopico, due cutter e catena con tanto di pezzo di ferro all'estremità. Insomma, un corredo da guerriglia urbana. Perfortuna Caparezzi e Paternoster (che sembrano più nomi da prete il primo e da cantante il secondo) sono stati condannati ieri a due anni e mezzo ciascuno.

05 luglio 2006

Partito Democratico?

Il correntone minaccia la scissione. Massimo D'Alema pare che freni. Giovanna Melandri nega che sarà il recinto del moderatismo. Marina Sereni dice che bisogna fare il programma per sciogliere le paure. Fra una buona e una cattiva intenzione, il partito democratico rimane lo spettro che si aggira sullo scenario politico. Si fa? Non si fa? Ma quando si fa? E come si fa? E soprattutto perché si fa? Credevamo di essere al come e invece siamo ancora al perché, ha scritto sul Riformista di ieri l'ex direttore Antonio Polito, replicando a un editoriale di venerdì del nuovo direttore Paolo Franchi, il quale aveva giustamente messo nero su bianco che «del perché un simile, inedito soggetto dovrebbe prendere corpo,e del perché l'Italia ne avrebbe bisogno, nessuno dei praticoni del 'partito nuovo' si è mai peritato di darci qualche ragione di carattere nazionale». Tali non essendo, a giudizio di Franchi, le esigenze di allargamento dei consensi elettorali di Ds e Dl, né «il tedioso chiacchiericcio» sulla necessità di far confluire le diverse tradizioni riformiste, né il successo delle primarie per Romano Prodi. Qualche ragione cercherà di darla il forum convocato per oggi a Roma dall'associazione per il partito democratico, presenti tutti gli interessati da Fassino a Rutelli a Cacciari a Parisi ad Amato. Ma allo stato attuale, la base più realistica per la discussione non l'ha fornita nessuno dei leader Ds, Dl e dintorni, ma un lungo e ambizioso saggio di Michele Salvati, pubblicato sempre sul Riformista in due puntate, venerdì e sabato. Impossibile da riassumere qui esaustivamente, ma di cui vanno almeno segnalati, e interrogati, alcuni passaggi. In primo luogo l'inizio, perentorio e sacrosanto: «Un 'partito nuovo' non nasce e non sopravvive se non risponde a un'esigenza storica, a una domanda del tempo, che i suoi promotori sono capaci di avvertire anche quando non è esplicita. Nasce e sopravvive se vi risponde». In secondo luogo il compito principale che per il nuovo partito viene indicato: prendere sul serio il rischio-declino dell'Italia e provare a rilanciare una crescita non solo economica ma anche civile e politica. In terzo luogo, la collocazione del progetto nella «storia lunga» della Repubblica: della cosiddetta Prima e della cosiddetta Seconda Repubblica, dei rispettivi sistemi politici e dei relativi blocchi. In quarto luogo, la definizione di una base culturale per il nuovo partito, con una rosa di autori di riferimento finora mai assunti esplicitamente come tali.
Personalmente condivido il primo e il secondo di questi punti, mentre avrei molte questioni da porre sul merito - non sulla rilevanza - del terzo e del quarto. Mi pare ad esempio tanto centrata la sottolineatura di Salvati del fallimento del primo centrosinistra nelal gestione della modernizzazione degli anni '60 e del consociativismo Dc-Pci nella gestione della crisi sociale degli anni 70, quanto affrettata l'analisi dei rapporti fra Psi e Pci; tanto apprezzabile l'esortazione a superare definitivamente le nostalgie per la «Prima» Repubblica, quanto rassicurante l'analisi delle derive della « Seconda», che non sono riducibili al «cattivo funzionamento» del bipolarismo ma a fattori di crisi sociale e politica che hanno scavato in profondità. Ancora: tanto condivisibile è la necessità di contestualizzare il progetto del nuovo partito nel «mondo cambiato» del dopo-'89, quanto discutibile è l'accettazione sostanziale della cassetta degli attrezzi di Blair, o la sua sostanziale equiparazione a quella di Schroeder e Zapatero; e tanto chiara è la defizione della'orizzonte culturale liberal-socialista (Sen, Rawls, Dworkin, Bobbio, Walzer) del partito democratico, quanto liquidatorio il giudizio sui «residui marxisti» presenti a sinistra. Infine e soprattutto: tanto è convinto l'invito a «derivare dal valore della democrazia una serie di implicazioni programmatiche forti», quanto è elusa la questione della crisi che le democrazie reali di oggi attraversano. Forse è proprio da qui che bisognerebbe avere il coraggio di cominciare a discutere. Ma allora quel nome, «partito democratico», apparirebbe ancor più spettrale di quanto non sia.

di Ida Dominijanni

02 luglio 2006

Why Jobs?


Da fedele e datato utente Apple quale sono, rimango un pò spiazzato da un'inchiesta pubblicata qualche settimana fa da The Mail on Sunday sulle drammatiche condizioni lavorative dei dipendenti cinesi addetti alla produzione degli iPod. Il giornale britannico racconta infatti che questi vengono realizzati soprattutto da donne che lavorano in media 15 ore al giorno per un salario di 50 dollari al mese, il tutto condito con guardie armate che controllano i ritmi di produzione e contrastano un'eventuale "spionaggio industriale". Due sono le fabbriche oggetto dell'inchiesta: la prima si trova a Longhua, vicino Hong Kong e di proprietà della Foxcoon, nella quale circa 200mila persone assemblano le 400 mini componenti dell' iPod nano; la seconda invece è situata a Suzhou dove le condizioni lavorative sembrano essere leggermente più "umane".
La Apple fino ad adesso ha taciuto anche di fronte alle pesanti dichiarazioni di un portavoce Foxcoon che ha ammesso lo sfruttamento del personale (80 ore extrasettimanali, circa 4 ore di straordinario al giorno) dichiarando però che "la Apple sapeva tutto, dal momento che aveva mandato uno staff d'ispezione senza rilevare illeciti o soprusi".
Ora posso definirmi, oltre che fedele e datato, anche un'utente un pò ingenuo, forse tradito dallo slogan Apple "Think Different" e da un'utopica forma di capitalismo solidale. In realtà di diverso non c'è proprio niente.

30 giugno 2006

Breve, confusa e banale riflessione sui migranti


Qualche settimana fa ero in un parco di Milano con due amici turchi. Ci si avvicina un giovine sui 30 anni con al seguito cane, frutto di qualche strano incrocio, chiedendoci se vogliamo fumare. Noi non ci rifiutiamo e il mio amico armatosi del necessario inizia a darsi da fare. Nel mentre scambiamo due parole con il ragazzo dalle quali viene fuori che è di Napoli e che lavora da dieci anni a Milano. Naturalmente non è tutto. Perchè il discorso devia sulla politica e su frasi già sentite ("i politici sono tutti uguali" e via dicendo) fino ad arrivare a toccare il tema del post, ovvero gli immigrati. Il ragazzo inizia così a pronunciare un elenco di frasi poco delicate sugli extracomunitari, ignorando naturalmente di parlare a degli extracomunitari, al che uno dei due "rivela" la propria identità. La faccia del tipo cambia leggermente tentando di salvarsi in corner sostenendo di avercela a morte soltanto con i "marocchini". Io nel frattempo cerco di far valere le mie doti, per altro scarse, di mediatore fra i due. Il tutto continua per alcuni minuti fino all'ultimo tiro di canna.
Continuo però a chiedermi quanto noi italiani siamo retrogradi su alcuni temi e come lo sia in maniera più forte la nostra classe politica.
Inoltre la questione dei migranti dovrebbe toccarci profondamente essendo il nostro un paese di emigranti. Dovremmo capire la condizione di disagio di una persona che lascia il proprio paese e la propria famiglia non perchè lo voglia, ma perchè "costretto" a sperare in qualcosa di migliore. Costretto dal modo di vivere e di pensare dettato dal capitalismo occidentale. Certo i problemi dei paesi terzomondisti sono anche interni, ma fino a quando le politiche del Fmi, del Wto, degli Usa e dell'Ue continueranno a far leva sul debito di questi paesi e sull'esportazione della democrazia con missioni militari e non di pace, i problemi da risolvere non saranno mai risolti. Tra questi anche quello dei migranti.
Penso che gli stranieri, comunitari o extracomunitari che siano, rappresentino una risorsa per l'Italia, in quanto sono diversi. E la diversità non deve essere fonte di paura, ma fonte di ricchezza.
Una fonte di ricchezza che non va affrontata con i Cpt che in Italia sono 14 e in media detengono 15.000 immigrati all'anno,complessi nei quali non si può entrare per chissà quale motivo, nonostante nessuna legge lo vieti. Una fonte di ricchezza che diventa tale soltanto con processi di integrazione che durano decenni e che i nostri governi più che favorire, ostacolano.
Il numero degli stranieri in Italia è di circa due milioni e mezzo, ma solo lo 0,5 per mille degli stranieri residenti riesce a diventare cittadino.
Il disegno di legge per cambiare la legge sulla cittadinanza è ancora in alto mare, nonostante questo sia un punto contenuto nel famoso programma dell'Unione. L'attuale legge del 1992 è basata sul c.d. ius sanguinis in base al quale la cittadinanza viene riconosciuta per "comunanza di sangue" e non come in molti altri paesi nei quali il criterio principe è quello del rapporto tra persona e territorio (ius soli). I bambini che nascono in Italia e si sentono italiani non possono vedere riconosciuta legalmente questa cosa fino al compimento dei 18 anni, perdendo questo diritto se non lo esercitano per i 12 mesi seguenti. Oltretutto il decreto attuativo dà due anni di tempo all'amministrazione per rispondere, facendo diventare i dieci anni necessari per la richiesta, dodici.
La situazione delle cose ci impone di cambiare, di rinnovarci, iniziandolo a fare da subito e non fra vent'anni come facciamo solitamente noi italiani.
berlusconi

28 giugno 2006

Salviamo il manifesto!


Da trentacinque anni il manifesto rappresenta un caso unico nel panorama editoriale italiano e non solo.Nessun padrone se non la cooperativa dei lavoratori che lo mettono ogni giorno in edicola, stipendi (bassi) uguali per tutti, un giornalismo politico indipendente e autogestito specchio delle trasformazioni che hanno segnato questi anni. Un bene comune, un vero e proprio «mostro» - nel senso letterale del termine - che ha l'ambizione di stare sul mercato violandone le leggi, un luogo aperto della sinistra. Anche la porta d'ingresso è sempre spalancata e chiunque può entrare, persino gli indesiderati, come è accaduto qualche anno fa. In questi trentacinque anni abbiamo vissuto pericolosamente (e spericolatamente): centinaia di migliaia di persone lo sanno bene, quelli che ci hanno letto, lavorato e chi ci ha usato per le proprie passioni. Le crisi finanziarie hanno scandito la nostra esistenza: le abbiamo sempre superate con il nostro lavoro e con l'aiuto del «nostro mondo». Ora siamo al punto che trentacinque anni possono precipitare in un pomeriggio d'estate. Perché la libertà costa, soprattutto a chi la pratica, e arriva il momento che quei costi si materializzano in scadenze non più rinviabili. Per evitare il precipizio abbiamo bisogno di aiuto, perché questa crisi è più grave delle altre emette a repentaglio la stessa esistenza del giornale. Non è un grido d'allarme, è una semplice notizia: nelle pagine interne ne illustriamo i termini. Perciò da oggi inizia un referendum sul futuro di questo giornale: le schede elettorali stanno nel portafoglio di tante e tanti. Perché questa è una crisi che non riguarda solo noi. Coinvolge i nostri lettori più affezionati, ma anche chi ci ha comprato una volta sola nella sua vita. Chiama in ballo tutta la sinistra (nell'accezione più ampia del termine, dai partiti ai sindacati all'associazionismo) ma anche il mondo dell'informazione cui questo giornale qualcosa ha pur dato (e continuerà a dare). Sono tutti questi i nostri «padroni», tutti quelli che - magari guardandoci da lontano - pensano che la democrazia abbia bisogno di un «mostruoso» antidoto contro i rischi di omologazione del pensiero. Saremo presuntuosi,macrediamo che la nostra voce sia essenziale, che il nostro essere uno strumento di lavoro per la critica dell'esistente sia una cambiale che non dobbiamo pagare da soli. E che, perciò, la nostra sorte non riguardi solo chi lavora in via Tomacelli o chi continua a stare «dalla parte del torto», ma anche chi la pensa in modo opposto. Per questo la nostra crisi la mettiamo in piazza, per questo faremo «l'appello» dei sottoscrittori e ne racconteremo gli esiti. Da oggi entriamo in una fase di mobilitazione generale. Siamo convinti di farcela. Noi ci metteremo tutto il nostro lavoro di sempre e le nostre aperture al mondo. Maabbiamo bisogno di tutti voi. Diteci se voi avete bisogno di noi. O se - come ha detto quel genio del Savoia - siamo solo una pessima carta e un terribile inchiostro.

Mariuccia Ciotta

Gabriele Polo

SALVA IL MANIFESTO

10 giugno 2006

Quale ricetta per l'unıversita'?

È coralmente accettato che l'università italiana è allo stremo. Al di là di sporadiche voci a sua difesa dettate da interessi di bottega, gli osservatori indipendenti - a cominciare dal Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi - concordano sul declino della nostra accademia. Nelle graduatorie internazionali non vi è traccia delle università italiane: scomparse. Non se ne trova alcuna tra le principali dieci al mondo; ma neanche tra le principali dieci in Europa (sette inglesi, due francesi e una svizzera). Se si consulta la classifica di Webometrics oppure quella del Times degli atenei del mondo, dopo innumerevoli bandiere a stelle a strisce, diverse bandiere di sua maestà britannica, qualche tricolore francese e un certo numero di bandiere tedesche, si scorge una bandierina bianca rossa e verde al centocinquantatreesimo posto. Tiriamo un sospiro di sollievo? Sì, ma solo per poco: è l'Universad Nacional Autonoma de Mexico. La prima italiana, Bologna, appare al centonovantaquattresimo. È la stessa che nel XIII e XIV secolo era la miglior accademia al mondo e attraeva studenti da tutta Europa, oggi è ridotta al rango di università di provincia. Alcuni anni fa, durante una visita all'università felsinea, mi fu riferito che l'allora rettore stimava il distacco del suo ateneo dalla frontiera della ricerca accademica in 30-50 anni. Significa che la ricerca che oggi produce in media la miglior università italiana è del livello di quella che Harvard - la frontiera odierna - produceva tra il 1950 e il 1970. È come se nel 2006 la Fiat fosse solo in grado di progettare e immettere nel mercato l'850 color caffèlatte senza marmitta catalittica o, al meglio, la Fiat 127: gloriose (forse) allora, invendibili oggi. Ma le auto caffèlatte sono finite fuori mercato, i professori no. Non c'è mercato che li minacci, non c'è concorrenza che li disciplini. Anzi, controllando gli accessi sono anche in grado di eliminare pericolosi concorrenti, ovvero i ricercatori più bravi, come Roberto Perotti ha più volte documentato su questo sito.
Una ricetta semplice
Capire le cause del collasso è utile e molti lo hanno fatto. Ma più importante è dire come rimediare. Un bel rompicapo anche per un ministro di buona volontà e di talento come l'onorevole Fabio Mussi. In un articolo sul Sole-24Ore di qualche giorno fa, Luigi Zingales ha proposto di risolvere il problema nell'unico modo possibile: iniettando dosi di concorrenza nel sistema universitario. La proposta di Zingales vuole fornire gli incentivi giusti per accrescere ciò che più manca alle nostre università: la qualità. Se gli studenti pagano (usando il prestito statale), hanno incentivo a pretendere; poiché il valore legale è abolito, ciò che conta è la reputazione dell'università e quindi la sua qualità. Studenti di miglior talento sono interessati a scegliere le università migliori e le università hanno incentivo ad attrarli.Per poterlo fare devono migliorare la qualità, quindi assumere docenti di calibro - anziché amici, parenti e portaborse - e fornire incentivi giusti a quelli esistenti. L'autonomia contabile e organizzativa è il corollario: per poter sviluppare la sua politica, ciascuna università deve avere libertà di manovra. Chi abusa di questa libertà ne pagherà le conseguenze perché attrarrà meno studenti e di minor qualità e quindi meno risorse.Il meccanismo è impeccabile. È anche implementabile? Sì, se si volesse, ma al ministro Mussi non piace. La sua obiezione è che quel meccanismo porterebbe rapidamente alla nascita "dell'università dei predestinati". Ma non è già così, signor ministro? Non abbiamo già una università di predestinati, siano essi i professori iperprotetti o gli studenti destinati al lavoro con titoli di studio senza un mercato? Se la proposta Zingales è troppo rivoluzionaria, le propongo una alternativa meno dirompente, ma ugualmente efficace: passi all’attuazione del sistema di valutazione della ricerca condotta lo scorso anno in via sperimentale dal Civr e condizioni una quota significativa, ad esempio un terzo, dei trasferimenti dello Stato alle università alla qualità della ricerca che vi si produce. Gli atenei che producono più ricerca di elevato livello - e solo quelli - ottengono più fondi delle altre; poiché la ricerca di qualità è condotta da ricercatori di talento, gli atenei competeranno per attrarre i migliori. I ricercatori di talento hanno un interesse prioritario a mantenere e accrescere il loro "capitale umano" e sanno che uno dei modi per farlo è attrarre altri ricercatori di elevata qualità con cui interagire e lavorare. In modo del tutto naturale useranno il merito, e si batteranno perché tutti lo facciano, come unico criterio di selezione dei professori, avviando il processo di ripresa delle università. Come vede la ricetta è semplice: una regola ferrea di allocazione dei fondi ai migliori; libertà di decisione alle università. Non c'è bisogno di Grandi Riforme, i cui beneficiari finora sono stati soprattutto i loro estensori.

da lavoce.info

13 maggio 2006

L' asiatica fenice

Mikhail Gorbaciov ha scritto, su La Stampa , recentemente, che la guerra fredda numero due è già cominciata. Possiamo fidarci. Lo è. E' finita la fase in cui Vladimir Putin accettava di fare da – come si dice a Mosca - mladshij partnior (socio subalterno) di Washington. Ed è finita non tanto perché Putin sia diventato baldanzoso e aggressivo all'improvviso, essendosi probabilmente stufato di essere considerato, appunto, un socio subalterno, quanto per il verificarsi concomitante di due fattori nuovi. Uno è la logica dell'Amministrazione americana attuale, che è eminentemente aggressiva su tutti i fronti. E che ha polverizzato sul suo cammino l'illusione (o la tattica sagace, scelga il lettore) di Putin di poter restare ancora a lungo fuori dal mirino di Washington.

La seconda è il risultato del prezzo del petrolio, che non ha cessato di riversare generosamente sullo zar del Cremino un fiume di dollari di gigantesche proporzioni, tale da consentirgli di risolvere alcuni problemi sociali interni e di avviare un programma di riarmo e di modernizzazione militare di dimensioni cospicue, da grande potenza.

Vediamo queste due componenti. Dall'11 di settembre in avanti (ma anche prima, appena giunto al potere, nel 2000, zar Vladimir si è comportato, appunto, come socio subalterno, accettando il dato rappresentato dagli Stati Uniti come unica superpotenza. Ne conseguiva l'accettazione della supremazia altrui e il ripiegamento su prudenti posizioni di attesa. Tattica dettata anche, in via secondaria, da ragioni interne, di consolidamento del potere a Mosca, e di rapporti delicati con gli oligarchi filo-occidentali. La guerra afgana fu dunque accettata da Mosca, perfino aiutata, pur rimanendone fuori. Faccia pure l'America, si diceva a Mosca, noi non faremo resistenza. Solo che George Bush, usando l'Afghanistan, si prese mezza Asia Centrale ex sovietica, installò le sue basi in Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, dislocò trentamila uomini là dove mai gli Stati Uniti avevano ficcato il naso. Non ci fu reazione significativa a Mosca, dove la cosa non passò tuttavia inosservata, ma prevalse l'idea di restare “fuori dal mirino”.

In parallelo Bush seguì la linea di Clinton: erodere le basi dell'influenza russa nei suoi cortili di casa. Bill Clinton aveva liquidato la Jugoslavia, Bush mette al potere a Tbilisi il suo uomo, liquidando perfino un alleato fedele come Eduard Shevardnadze. E qui il nervosismo di Mosca ha cominciato a diventare alto. E' difficile stare fuori dal mirino se il mirino t'insegue in continuazione. Poi venne l'Ucraina e la rivoluzione cosiddetta arancione (ovvero la cosiddetta rivoluzione arancione) e qui fu chiaro che Washington aveva precisamente messo Mosca nel suo mirino e stava sparando bordate molto pesanti.

La ritirata del Cremlino finisce esattamente nel momento in cui Janukovic è costretto a rinunciare alla vittoria (sicuramente rubata) e si ripetono le elezioni che porteranno alla vittoria di Jushenko. Da quel momento Vladimir Putin comincia la sua politica, silenziosa ma visibile, di roll back nei confronti degli americani. Insomma: oltre non vi lasciamo andare. Verrà l'inverno e Putin presenterà la bolletta del gas all'Ucraina, e tutto diventa improvvisamente più chiaro anche ai polacchi e ai baltici, che avevano soffiato (e ancora soffiano) nelle trombe per conto di Washington.

Nel frattempo, per gli ex paesi fratelli e cugini del Baltico, Putin preparava la seconda pillola amara. Il gasdotto sotto il mare, che consentirà di portare energia in Germania bypassandoli tutti in un colpo solo. Grande operazione strategica che libererà Mosca dalla necessità di chiedere permesso a vicini assai ostili e molto “americani” per portare il suo gas agli utilizzatori europei. I quali, a loro volta, ne hanno un bisogno assoluto, e non hanno nessuna intenzione di farsi trascinare in una prova di forza dai paesi minori appena entrati in Europa.

Per fare questa operazione Putin aveva bisogno di un partner: la Germania di Gerhard Schroeder. E l'ha trovato, anzi ne ha trovati due, Germania e Francia, entrambi preoccupati anch'essi della piega troppo antirussa e filo americana della cosiddetta “nuova Europa”, così battezzata da Donald Rumsfeld. Adesso al posto si Schroeder c'è Angela Merkel , ma i bisogni dell'industria tedesca sono gli stessi e l'amico Gerhard è diventato consulente principale del progetto, a riprova che la socialdemocrazia tedesca non è disposta a farsi trascinare dove vorrebbero Varsavia, Riga e Tallin.

Così si può concludere, sul primo fattore, dicendo che George Bush si è creato con le sue stesse mani, mettendolo con le spalle al muro, un antagonista sempre più riottoso. Tanto più riottoso perché non avrebbe voluto farlo. Per lo meno, non in tempi così ravvicinati.

E qui veniamo al secondo fattore. Putin ha fatto i suoi conti. Quelli energetici innanzitutto. La Russia è la seconda grande potenza energetica del mondo. La prima se si esamina il combinato composto di gas e petrolio. Gli altri grandi erogatori di energia sono sotto i governi arabi amici degli Stati Uniti, o sotto il dominio americano, se si eccettuano l'Iran e il Venezuela, che l'America non controlla. Ma la Russia è indispensabile all'Europa e sta diventando indispensabile alla Cina, la cui voracità energetica non ha al momento confini.

Questa posizione cruciale è ancora più decisiva se si tiene conto che siamo ormai nel “picco” del petrolio, il famoso momento in cui il suo prezzo, a causa della scarsezza crescente della merce, non discenderà più in base alle oscillazioni del mercato, ma continuerà a crescere fino a che non sarà sostituibile (ma quando e se non lo sa nessuno) da altre fonti, alternative e rinnovabili.

Così Putin si trova adesso a poter usare due piccioni con una sola fava: usare le immense risorse monetarie che sta accumulando per armarsi, ma anche per tornare a esercitare la sua influenza politica anche più lontano dai suoi attuali confini. Ovvio che questa linea va in rotta di collisione con quella dell'Impero, sia per ragioni geo-politiche che economiche. Una Russia di questo tipo non solo è pericolosissima dal punto di vista militare, ma lo è anche perché la sua azione indipendente può risolvere i problemi di altri partners mondiali. Vedi Europa, e soprattutto Cina. Quest'ultimo è un protagonista che agisce in completa autonomia rispetto all'Impero. L'Europa potrebbe diventare un altro giocatore assai più indipendente di quanto lo sia stato e lo sia oggi.

Brutte nuove per Washington che, a sua volta, ha tempi stretti per prendere decisioni, in una situazione in cui il suo debito estero è per quasi il 10% nelle mani della Banca di Stato cinese, mentre il deficit del suo budget sta toccando il tetto vertiginoso dei 9 trilioni di dollari.

Solo una bella guerra (contro l'Iran), con un bombardamento a tappeto delle strutture atomiche e delle infrastrutture industriali e con gli effetti dirompenti sugli equilibri mondiali, può rinviare la resa dei conti economici del maggior debitore mondiale. Ma per fare questa guerra bisognerebbe avere qualche alleato in più, oltre a Israele e al Botswana.

Putin ha ormai messo a punto la sua strategia e lo si vede. Non solo in Europa. L'Iran, sotto tiro di Washington, ha già avuto da Mosca missili cruise di nuova generazione, in grado di affondare tutte le petroliere che escono dal Golfo Persico. Il che significa che l'Europa si troverebbe senza benzina nel corso delle due settimane dopo l'inizio dei bombardamenti americani. Una prospettiva assai poco gradita a Bruxelles, sempre che abbiano fatto i loro calcoli. Sul piano diplomatico, Russia e Cina non permetteranno al Consiglio di Sicurezza di dare il via libera ad alcuna azione militare di Washington. Il che riprodurrà, nel momento in cui Washington deciderà l'offensiva, la stessa situazione di completa illegalità (oltre che di isolamento politico) che caratterizzò l'inizio della guerra irachena.

Il leader russo, che ha ormai sistemato a dovere i suoi oligarchi, trasformandoli da agenti dell'occidente in miti boiari che prosperano sotto la protezione dello zar, ha impedito con grande souplesse il rovesciamento di Lukashenko in Bielorussia e ha ricevuto al Cremino i nuovi governanti del popolo palestinese, eletti a furor di popolo nelle ultime elezioni di gennaio. Mosca torna a svolger un ruolo decisivo nella crisi medio-orientale. E bisognerà tenere conto dei suoi voleri, e dei suoi consigli.

E, sul fronte più orientale, oleodotti e gasdotti russo-cinesi stanno già attraversando le immense distese delle steppe siberiane, da ovest a est e da nord a sud. Aveva ragione Zbignew Brzezinski, nel 1987, quando scrisse, nella “Grande scacchiera”, che la supremazia dell'America sul mondo avrebbe dovuto passare, inesorabilmente, attraverso la demolizione della Russia (non dell'Unione Sovietica soltanto). E' accaduto però che, nonostante tutti gli sforzi messi insieme da tre presidenti americani, Bush padre, Clinton, e Bush figlio, la Russia non è stata demolita. Il che significa che la supremazia dell'America sul mondo non è stata raggiunta. Brzezinski pensava che, liquidata la Russia , trasformata in una federazione “leggera” di tre stati – Russia Europea senza il Caucaso, Siberia occidentale, Estremo oriente – gli Stati Uniti avrebbero potuto omologare abbastanza agevolmente la Cina , inserendola nel sistema di dominio del “consenso washingtoniano”. Diciannove anni dopo la Russia è di nuovo un giocatore mondiale e la Cina è un gigante al di fuori del controllo di chiunque.


di Giulietto Chiesa
da Megachip

A quanto ammonta il debito Usa?

I detective della scientifica sono all'opera. Se si guarda la tele la sera (in prima serata) ci si ritrova spesso a vedere della gente impegnata a raccogliere indizi sulla scena del crimine, cercando di capire cosa sia realmente successo. Questo è più o meno quello che avviene anche negli ambienti finanziari. Il crimine su cui si indaga è il deficit commerciale degli Stati Uniti, che secondo le rilevazioni più approfondite ha raggiunto l'anno scorso la stratosferica somma di 805 miliardi di dollari. Il mistero è come sia stato possibile toccare una tale soglia, gradualmente aumentata negli anni, con così poche conseguenze negative visibili. Ed il futuro dell'economia degli Stati Uniti dipende da quale delle due ipotesi proposte per risolvere il «caso» è quella vera.

Ecco la scena del crimine: il deficit nel commercio vuol dire che l'America sta vivendo al di sopra delle sue possibilità, spendendo più di quello che guadagna (nel 2005, gli Usa hanno esportato solo per 53 centesimi ogni dollaro importato). Per poter pagare l'eccedenza delle importazioni rispetto alle esportazioni, gli Stati Uniti hanno dovuto vendere azioni, buoni del tesoro e attività agli stranieri. In effetti dal '99, ci siamo fatti prestare più di 3 mila miliardi di dollari.

E' chiaro poi che gli introiti dovuti agli investimenti - pagamento degli interessi, dividendi delle azioni e così via – che gli americani pagano agli investitori stranieri saranno molto maggiori di quelli che gli stranieri pagheranno agli americani. Ma secondo le statistiche ufficiali, gli Stati Uniti continuano ad avere una bilancia dei proventi da investimento positiva, anche se di poco.

Com'è possibile questo? La risposta, quasi certamente, è che c'è qualcosa che non va nei numeri. La gente tende a trattare le statistiche ufficiali come fossero vangelo; gli economisti seri sanno che l'assemblaggio di questi numeri richiede molte congetture ben ponderate, e che a volte queste supposizioni sono erronee. Ma per ritornare a quello che non va, o l'economia statunitense ha delle risorse nascoste oppure è in uno stato ben peggiore di quello che sembra.

Da una parte ci sono gli esperti di economia che pensano che le statistiche ufficiali non prendono in considerazione l'export invisibile degli Stati Uniti: non quello di beni e servizi, ma quello intangibile di conoscenza e apprezzamento dei nomi di marca, che permette alle aziende Usa di guadagnare molto dai loro investimenti all'estero. I fautori di questa ipotesi sostengono che se si includesse nei calcoli anche questa forma di export, che gli esperti chiamano "materia oscura", gran parte del deficit commerciale degli Stati Uniti sparirebbe.

L'ipotesi della materia oscura è stata ripresa in modo zelante da quei giornalisti che adorano andare contro corrente. Si sostiene in pratica che l'economia americana è “più forte di quello che si crede”, per usare le parole del Business Week.

C'è però un problema: le società americane operanti all'estero non sembrano guadagnare poi così tanto. E perchè poi gli Stati Uniti non pagherebbero a loro volta il giusto prezzo per tutto quello che hanno preso in prestito? Perchè, sempre secondo i dati ufficiali, le compagnie straniere operanti negli Usa si dimostrano particolarmente poco redditizie, dando un tasso di ritorno di investimento di solo 2,2 punti percentuali all'anno.

Qualcosa non quadra in questa ricostruzione. Come sottolineato da Daniel Gros del CEPS, Centro per gli Studi Politici Europei, è difficile credere che gli stranieri continueranno ad investire negli Stati Uniti “se essi continueranno ad essere spennati come dei polli".

In un nuovo articolo il signor Gros spiega - in modo acuto, secondo me – che si sta verificando un fenomeno per cui le compagnie straniere, probabilmente per motivi fiscali, stanno ridimensionando gli utili delle loro filiali americane, e che i dati ufficiali non sono in grado di stimare i profitti di capitali stranieri reinvestiti in operazioni statunitensi.

Se Gros ha ragione, la situazione reale degli Stati Uniti non è così cattiva come la si immagina... ma peggiore. Il vero deficit commerciale, includendo anche gli utili non registrati che appartengono alle compagnie straniere, non è di 800 miliardi di dollari, ma di più di 900 miliardi. E il debito estero dell'America allora, con l'aggiunta dei profitti propri alle imprese straniere, risulta di 1.000 miliardi di dollari più alto di quello ufficiale.

A questo punto gli ottimisti tornerebbero alla carica sostenendo: perchè, se le cose stanno così male, ci sono ancora così tanti investitori stranieri che comprano titoli di Stato americani? Ed aggiungerebbero che spesso, le previsioni catastrofiche legate al deficit commerciale, si sono rivelate eccessive. Io ho due sole parole per coloro che si affidano ciecamente al giudizio degli investitori, e credono che pochi anni positivi siano sufficienti a convincere gli scettici di essere nel torto: Nasdaq 5.000.

Fino ad ora, le analisi della scientifica sembrano dirci che la situazione commerciale degli Stati Uniti è peggiore, e non migliore, di quel che sembra. E la risposta alla domanda “Perchè allora non abbiamo pagato lo scotto di questo deficit commerciale?" è: aspettate soltanto un po' e vedrete.

di Paul Krugman
da Megachip

05 maggio 2006

Il peggio deve ancora arrivare?

Lo scenario politico nazionale in questo periodo non è dei più felici si sa. I risultati elettorali, almeno per chi scrive, ci hanno consegnato la situazione peggiore che poteva capitare: il pareggio (naturalmente non prendendo in considerazione la sconfitta). L’ agenda politica delle prossime settimane, oltre ahimè alla probabile elezione di Massimo D’Alema come Presidente della Repubblica, ci pone davanti agli occhi una data cruciale. Questa data cruciale è il 25 giugno giorno nel quale ci sarà il referendum costituzionale.
Il silenzio che circonda il 25 è sconcertante, sia a destra che a sinistra. Soprattutto per quanto riguarda le conseguenze determinate da un’ eventuale “vittoria” del centrodestra, di cui pochi parlano, ma che invece configurerebbe una situazione drammatica per l’ Italia in termini sicuramente maggiori rispetto a quelli delle politiche.
Cercherò quindi di trattare i principali cambiamenti che porterebbe con sé la conferma della devolution:
1) Il Parlamento non sarà caratterizzato più dal bicameralismo paritario/perfetto (stesse funzioni), ma avrà competenze diverse ripartite tra le due camere. La Camera avrà infatti giurisdizione sulle materie di potestà dello Stato mentre il Senato su quelle di potestà regionale. Ci sarà il cosiddetto Senato federale (anche se il termine federale non indica una rappresentanza territoriale) eletto in concomitanza con le amministrative che potrebbe portare a situazioni di puro stallo politico-istituzionale simili al “governo diviso” USA, ovvero due maggioranze diverse nei due rami del Parlamento. La Camera avrà rapporto fiduciario con il Primo Ministro, potrà infatti esprimere un voto sul programma, mentre il Senato no. La Camera avrà anche la possibilità di sfiducia costruttiva nei confronti del PM ovvero potrà sostituirlo con un’ altro PM votando a maggioranza assoluta (50%+1). La sfiducia costruttiva potrà essere “impugnata” però soltanto dalla maggioranza uscita fuori dalle politiche al fine di evitare i cosiddetti ribaltoni. Questo vorrà dire praticamente che i voti dei parlamentari non saranno considerati più tutti uguali.
2) Il Primo Ministro verrà nominato dal Presidente della Repubblica sotto indicazione della coalizione vincente, avrà potere di nominare e revocare i ministri senza “passare” per il Capo dello Stato e determinerà la politica del Governo “non limitandosi” più a dirigerla come previsto dalla Costituzione del ’48.
3) Il Presidente della Repubblica diventerà una figura essenziale per permettere al Governo di realizzare le sue politiche, diventando così estremamente politicizzato perdendo quindi il suo ruolo principale di garante della Costituzione. Il Presidente potrà infatti, in caso di stallo di una legge in Parlamento, permettere attraverso un preciso iter la sua approvazione.
4) Se il PM vuole sciogliere le Camere potrà farlo a meno che il Parlamento si opponga nominando un nuovo PM. In caso di opposizione da parte del Parlamento al PM basta un numero non esagerato di deputati a lui fedeli per far sciogliere le camere.
5) Per quanto riguarda la vera e propria devolution in realtà la nuova costituzione prevede di attribuire più competenze alle regioni, ma in modo apparente visto che si creano diverse competenze statali.
6) La Corte Costituzionale come il PR prevede anch’essa una maggiore politicizzazione con la nomina di 3 giudici da parte della Camera e 4 da parte del Senato.
Volendo tirare le somme in maniera sintetica di questa riforma costituzionale si può dire che andremmo incontro da un lato nei casi di stallo politico ad una maggiore instabilità e incapacità decisionale dei governi (soggetti quindi all’ inciucio) dall’altro nei casi di maggioranze cospicue ad un’ esecutivo esageratamente forte. Un panorama non roseo che creerebbe un’incertezza politico-istituzionale gravissima quindida evitare assolutamente.

25 aprile 2006

Liberticida!


Bertinotti ha toccato uno dei temi più delicati nel panorama politico nazionale: le televisioni di Berlusconi e di conseguenza il conflitto di interessi. In questi anni chi ha fatto lo stesso è stato etichettato la maggior parte delle volte come "liberticida" e quindi "comunista". Basta sfogliare le pagine dei giornali per scorgere queste due parole che si rincorrono senza sosta in riprova della natura "illiberale" degli "eredi del comunismo" (le parole virgolettate sono del Cavaliere). Molte dichiarazioni di "solidarietà" sono arrivate dal centrosinistra stesso per difendere Mediaset "un patrimonio per l' Italia, un' impresa strategica che deve poter affrontare serenamente il futuro in un quadro di regole certe e all' altezza di un paese europeo"(parole di D'Alema nel lontano '96). Inoltre Marco Rizzo (Pdci) intervistato da una giornalista di Studio Aperto è stato capace di dire che il ridimensionamento di Mediaset sostenuto dal segretario del Prc andrebbe contro gli interessi dei lavoratori.
Si potrebbe andare avanti così, elencando affermazioni stupide di gente altrettanto stupida, a riprova della miopia, forse voluta, della classe politica italiana. Ma non avrebbe senso. Ha senso invece ricordare la sentenza della Corte Costituzionale riguardo la legge Mammì del 7 dicembre '94: "Il legislatore è vincolato ad impedire la formazione di posizioni dominanti nell' emittenza privata e favorire il pluralismo delle voci nel settore televisivo, [...] nel senso che l' esistenza di un' emittenza pubblica non vale a bilanciare la posizione dominante di un soggetto privato. [...] Il legislatore [...] doveva contenere e gradualmente ridimensionare la concentrazione esistente e non già legittimarla stabilmente, non potendo esimersi dal considerare che la posizione dominante data dalla titolarità di 3 reti su 9 assegna un esorbitante vantaggio nella utilizzazione delle risorse e della raccolta pubblicitaria". Queste parole sono sacrosante e dovrebbero essere ricordate più spesso a chi leva gli scudi contro Bertinotti per difendere i "custodi" del pluralismo e della libertà. Norma Rangieri analizza lo status quo in maniera realista e critica:
Si fa la televisione per vendere la pubblicità, non si vende la pubblicità per pagare la televisione. E' la regola aurea del medium commerciale che, in virtù di un modello limpido di business, produce straordinari profitti. In Italia Mediaset ne è un esempio forte, imbattibile, al punto che il recente bilancio ha regalato agli azioni una cedola superlativa, la più alta degli ultimi anni.
La televisione dell'ex presidente del consiglio è una grande industria. Come del resto lo è quella, altrettanto florida, delle italianissime mine antiuomo. Mediaset è la più grande fabbrica di demagogia populista, i suoi palinsesti (telegiornali-megafono e reality) la sparano a cannonate, annullando ogni lume di cittadinanza. Eppure, chi accenna a sollevare qualche dubbio sulla pubblica utilità di questa grande azienda commerciale (quella televisiva), commette un grave, gravissimo peccato di leso pluralismo. Come se dagli schermi Mediaset uscisse ogni giorni il lievito necessario per il progresso del paese, anziché quel misto di propaganda politica e spot mascherati da programmi.
La ragione di una reazione tanto strumentale è sotto gli occhi di tutti: si va a sbattere contro una classe dirigente (di destra e di sinistra) legata al piccolo schermo da un cordone ombelicale che nessuno vuole tagliare. Di cui porta una grande responsabilità il lento declino del servizio pubblico. La sua assimilazione al principio che si fa televisione per vendere la pubblicità, lo ha reso così affine, indistinguibile dalla tv commerciale, che il progetto di restituirlo alla dignità di un modello europeo (inglese, spagnolo, francese, tedesco) viene immediatamente piegato a un'idea di ridimensionamento educational, allontanando così l'idea di una sua rifondazione. Il minculpop c'è ora, con il soffocante cappio del controllo partitico che impedisce ogni riforma del mostro a sei teste. Invece di sbloccare il duopolio-monopolio, esso viene perpetuato con nuove leggi (da ultimo la Gasparri) che puntualmente fotografano l'esistente, rinviando ogni liberalizzazione del settore.
Se Fausto Bertinotti interviene sulla necessità di rompere il monopolio privato (senza neppure eccepire sulla utilità della merce), diventa il vendicativo manovratore, l'avanguardia di una ritorsione politica, il tagliatore di posti di lavoro. Parallelamente, di fronte al bisogno di privilegiare il servizio pubblico, si grida al dirigismo sovietico. Come se pubblico e partitico fossero il futuro. E allora si ripiega sulla piccola riforma: togliere una rete alla Rai e una a Mediaset (ipotesi suggerita dal bulimico regime di sei reti nazionali) che diventa l'unica grande riforma possibile. Un escamotage per ridisegnare la lottizzazione allargandone i confini a qualche eclave con il suo territorio già picchettato. Ma anche solo accennare a questa redistribuzione della torta, fa rizzare i capelli in testa al comunista Rizzo.
E si capisce, a ogni epoca le sue classi dirigenti. La esiziale commistione tra televisione e politica, che tuttavia, negli anni bernabeiani, configurava una industria culturale fatta dalle élite, via via è degenerata in un'industria senza eccellenza, con una mano d'opera (gli autori) rappresentata da un marketing (commerciale e politico) periferico, residuale.

19 aprile 2006

Democrazie su misura


La democrazia, spesso presentata come il migliore dei sistemi politici, è stata a lungo una forma di governo poco diffusa. Di fatto, nessun regime risponde interamente all'ideale democratico, che presupporrebbe un'onestà totale dei potenti nei riguardi dei deboli, e la condanna veramente radicale di ogni abuso di potere. Andrebbero rispettati cinque indispensabili criteri: libere elezioni; esistenza di un'opposizione politica organizzata e libera; diritto reale all'alternanza politica; esistenza di un sistema giudiziario indipendente dal potere politico; esistenza di media liberi. Il diritto di voto è stato per lungo tempo negato alle donne in diversi stati democratici, quali la Francia e il Regno unito - peraltro potenze coloniali, che calpestavano i diritti dei popoli colonizzati. Malgrado i suoi difetti, questo metodo di governo ha avuto tendenza a universalizzarsi. Dapprima sotto il forte impulso del presidente degli Stati uniti Woodrow Wilson (1856-1924); ma soprattutto dopo la fine della guerra fredda e la scomparsa dell'Unione sovietica.
Fu annunciata allora la «fine della storia», col pretesto che nulla ormai impediva agli Stati dell'intero pianeta di raggiungere un giorno i due traguardi della felicità suprema: l'economia di mercato e la democrazia rappresentativa. Obiettivi che sono divenuti dogmi intoccabili.
In nome di questi dogmi, George W. Bush ha ritenuto legittimo ricorrere alla forza in Iraq. E ha autorizzato le sue forze armate a praticare la tortura nelle carceri segrete dislocate dagli Usa in altri paesi.
O a sottoporre a trattamenti disumani i detenuti del bagno penale di Guantanamo, al di fuori di ogni quadro giuridico - secondo quanto è stato recentemente denunciato da una Commissione dei diritti umani dell'Onu, e in una risoluzione del Parlamento europeo. Ma nonostante queste gravissime violazioni, gli Stati uniti non esitano ad erigersi a istanza planetaria dell'omologazione democratica. Washington ha preso l'abitudine di mortificare i suoi avversari definendoli sistematicamente «non democratici», o addirittura «stati canaglia» o «bastioni della tirannide». Unica condizione per sfuggire a questo marchio d'infamia: organizzare «libere elezioni». Ma anche in questo caso, tutto dipende dai risultati: come dimostra l'esempio del Venezuela, dove dal 1998 il presidente Hugo Chávez è stato eletto a più riprese, in condizioni democratiche garantite da osservatori internazionali. Niente da fare. Washington continua ad accusare Chávez di rappresentare un «pericolo per la democrazia», e nell'aprile 2002 arriva addirittura a fomentare un colpo di stato contro il presidente venezuelano. Nel dicembre di quest'anno Hugo Chávez si sottoporrà nuovamente al verdetto delle urne.
Altri tre esempi - l'Iran, la Palestina e Haiti - mostrano che essere eletti democraticamente non basta più. Nel caso dell'Iran, tutti hanno tributato applausi alle elezioni del giugno 2005: partecipazione massiccia degli elettori, pluralità e diversità dei candidati (nel quadro dell'islamismo ufficiale), e soprattutto, brillante campagna di Ali-Akbar Hachemi Rafsandjani, favorito degli occidentali e dato per vincitore. Nessuno allora ha menzionato il «pericolo nucleare».
Ma tutto è cambiato bruscamente dopo la vittoria di Mahmud Ahmadinejad (che su Israele ha fatto dichiarazioni inaccettabili). Tanto che oggi assistiamo a una demonizzazione dell'Iran.
Sebbene Tehran abbia firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e neghi di voler costruire la bomba, il ministro francese degli affari esteri ha recentemente accusato l'Iran di portare avanti un «programma nucleare militare clandestino»! Frattanto, già dimentica delle recenti elezioni, la segretaria di stato americana Condoleezza Rice chiede al Congresso americano 75 milioni di dollari per finanziare in Iran la «promozione della democrazia»! Stessa situazione, o quasi, in Palestina, dove gli Stati uniti e l'Unione europea, dopo aver insistito per lo svolgimento di elezioni «veramente democratiche», sorvegliate da una miriade di osservatori esteri, ora ne rifiutano il risultato, col pretesto che lo schieramento vincente - il movimento islamico nazionalista Hamas (autore in passato di odiosi attentati contro civili israeliani) non è gradito.
Infine ad Haiti, in occasione delle elezioni presidenziali del 7 febbraio scorso, René Préval ha finito per essere eletto, dopo che era fatto di tutto per impedire la sua vittoria. La «comunità internazionale» non lo voleva a nessun costo, a causa dei suoi legami con l'ex presidente Jean- Bertrand Aristide, lui pure eletto democraticamente e quindi rovesciato nel 2004.
«La democrazia - diceva Winston Churchill - è il peggiore dei regimi, a eccezione di tutti gli altri». Sembra però che oggi dia soprattutto fastidio l'impossibilità di determinare in anticipo il risultato di una consultazione elettorale. C'è chi vorrebbe poter instaurare democrazie su misura. A esito garantito.

di Ignacio Ramonet

17 aprile 2006

La nuova ICI (Io Cambio Idea)

Come volete chiamarla? Mezza vittoria, vittoria ai rigori, vittitta, non-sconfitta, maggioruzza, minimaggianza? Prezioso pareggio, scampato pericolo? No, non mi sento di chiamarla vittoria. Però, è l'inizio di qualcosa che fino a ieri non c'era. E su questo, alcune riflessioni. I coglioni non li abbiamo visti, la figura da coglioni sì. Mi riferisco ai bookmaker inglesi e ai sondaggisti. Ma mentre i bookmaker inglesi hanno pagato regolarmente le giocate, i sondaggisti chi li ha pagati, o chi li dovrà pagare? Non voglio indagare troppo sulla loro scientifica taroccata, Ma se incontro un sondaggista, giuro che gli dirò questo: secondo il mio exitpoll lei ha, nell'immediato futuro, un tredici per cento di possibilità di prendersi un calcio nel culo, un dieci per cento di beccarsi un papagno in faccia, un sette per cento di venir morso all' orecchio, un tre per cento di ginocchiata nei coglioni e un sessantasette per cento che la lasci andare illesa. Ma le mie previsioni potrebbero essere clamorosamente sbagliate. L'avevo scritto prima delle elezioni. Una regola della democrazia, ultimamente in disuso, è quando la maggioranza, larga o risicata che sia, rispetta e ascolta la minoranza. In questa situazione di minimissimi scarti, il governo migliore è quello capace di rispettare anzitutto i suoi elettori, ma anche i bisogni e i desideri dell'altra metà. Si può decidere e avere una linea di governo precisa anche senza una votazione di fiducia al giorno. Berlusconi in cinque anni ne ha avuta la possibilità, e non l'ha mai fatto. Perché dovrebbe farlo adesso? Prodi ne ha possibilità e la responsabilità. Comunque a me la parola Grosse Koalition non spaventa, forse ci sono già state altre grossen, e neanche ce ne siamo accorti. Che la destra faccia i nomi di sei o sette ministri che potrebbero entrare in questa rapida evoluzione del bipartisan. Dovrebbe, penso, tirar fuori della facce nuove: perché tra le vecchie vedo molte facce grosse, ma poco koalition. Preferisco i coerenti, ma comprendo i trasformisti, diceva Ehrich Weiss. Però, per evitare ingorghi, metterei una tassa Ici, sigla che sta per Io Cambio Idea. Chi vuole passare al governo Prodi, o scopre di essere improvvisamente folgorato dal carisma di Rutelli, deve pagare una tassa doganale, più un acconto sui benefici previsti e virtuali. Questo, ovviamente anche in caso di travaso opposto. Gli evasori della nuova Ici dovranno pagare una forte multa che andrà al Fsvti, Fondo di Solidarietà Vittime di Trasformismi Inopportuni e Intempestivi. Mica tutti sono bravi come Vespa. Chi vorrebbe tornare a votare, è pazzo per molti motivi. Il primo è che un nuovo voto non disegnerebbe una maggioranza netta. Il secondo è che nessun pianeta della galassia potrebbe sopportare un'altra campagna elettorale come quella appena conclusa. Il terzo è che una scelta in cui un paese si divide a metà non è una non-scelta, ma una chiarissima scelta. Forse non piace a chi vuole la stabilità, ma esprime il pensiero degli elettori. L'ultima ragione, infine è che i leader non ce la farebbero né mentalmente né fisicamente. Berlusconi non può sparare balle e promesse ancora più colossali. Gli resta solo da dire che, se viene eletto, verrà abolita la morte per cinque anni. E Prodi non può continuare a far finta di sorridere bonario anche quando è chiaramente incazzato come una pantera. Esploderebbe. Non è il caso, adesso, di far troppa ironia sui meno-vittoriosi-degli-altri. Ma una cosa mi va di ricordarla. Il moderato Casini viene a Bologna in campagna elettorale e dice: ci sono dei quartieri che sembrano Harlem. Lasciamo perdere il giudizio sui quartieri, fatto sta che a Harlem ci sono stato, è un quartiere povero, duro, ma anche pieno di musica, di vita e solidarietà. Ma per il moderato Casini è un quartiere nero, quindi sinonimo di quartieraccio. Ecco chi non vorrei dentro una grossa coalizione. Un presidente della camera moderatamente razzista. E come si sono comportati, invece, i politici dell'Unione in campagna elettorale? Colpevolmente, ho visto solo due comizi e ho visto poco la televisione, quasi sempre in un bar tra urla, commenti, applausi e cachinni. Dico solo che, anche se in mille cose la penso diversamente da lei, quella non mi hai mai annoiato è stata Emma Bonino. Il mio sogno? Che un giorno l'Italia non sia più una tendenziale pavocrazia. Cioè una democrazia in cui si vota una parte per paura di quello che ci può fare l'altra parte. Sono anziano e rattoppato, ma ci spero ancora. Per finire, non sono affatto stupito del voto degli italiani all'estero. Quest'anno ho fatto due viaggi, uno in Australia e uno in Germania. E ho visto la voglia di partecipazione, la sincera preoccupazione, il bisogno di capire degli italiani che vivono lontani, anche da tanto tempo. Se posso dare un consiglio a Prodi, dia qualche euro in più ai consolati e agli istituti di cultura esteri, che da anni si vedono decurtare le cifre. Non parlo degli stipendi degli ambasciatori o dei viaggi della nomenclatura. Parlo di quello che serve per organizzare eventi culturali, biblioteche, corsi di lingua, e soprattutto assistenza e aiuto in situazioni di difficoltà. Non occorre una spesa colossale, e sarebbe un provvedimento importante. Colgo quindi l'occasione per rinnovare un invito intercontinentale ad abbonarsi al manifesto. Che a sua volta, grato agli italiani all'estero, si impegna a fare forti sconti per gli abbonati della Patagonia e dell'Antartide. Mi dicono che in ogni punto del mondo sarà possibile ricevere, ogni martedì, il giornale di lunedì. Sull'anno di pubblicazione, non possiamo garantire.

di Stefano Benni

28 marzo 2006

Programmi....


Riporto il sedicesimo punto del programma de La Rosa nel Pugno:

  • (Italian and) European endowment for democracy: (fondo italiano e) fondo UE di sostegno alla promozione globale della democrazia sul modello del National Endowment for Democracy
Il progetto di costituire un organismo sulla base del NED da parte del partito della Bonino può sembrare cosa normale se non lodevole. Pochi però sanno che "gli Stati Uniti predispongono in tutto il mondo interventi che hanno lo scopo di influenzare certi elementi delle diverse società civili, ad esempio la stampa, i partiti politici, le unioni sindacali e così via, per spingerli in una determinata direzione, sia essa a favore delle scelte politiche sostenute dagli Stati Uniti oppure a sostegno dell'opposizione ai governi di quei paesi, quando non al loro rovesciamento. Fino a qualche tempo fa, come è noto, il ruolo chiave in questo senso era giocato dalla Cia e dall' Usaid (Agency for International Development). Nel 1983 queste istituzioni confluirono nel NED." Queste parole sono di Wayne Smith ex Capo d'Ufficio di interessi degli Usa a l'Avana durante la presidenza Carter e sono tratte dall'ultimo numero di Latinoamerica.
Certo che se quelli de La Rosa nel Pugno vogliono esportare democrazia come fanno magistralmente da decenni gli USA allora siamo messi bene...

26 marzo 2006

Resistenza...


Che la televisione sia diventata contenitore di spazzatura ahimè è cosa nota. Pochi sono i programmi seri fatti da gente seria. Gli "editti bulgari" colpiscono molte volte in maniera silenziosa e meno clamorosa. E non sono solo di destra.
C'è però chi resiste. Tra questi c'è Riccardo Iacona che ogni domenica va in onda su Raitre (nota rete comunista) con "W l'Italia" alle 21,30 proponendo inchieste su vari spaccati della vita degli italiani a contatto con le istituzioni. Vita di tutti i giorni. Problemi di tutti i giorni. Quei problemi che naturalmente neanche in campagna elettorale vengono toccati. Problemi che manco a dirlo vanno risolti. Le prime tre puntate hanno trattato tre temi: casa, ospedali e giustizia. La prossima parlerà della ricerca.
Bravo Riccardo...

17 marzo 2006

Si vergogni!

Tranne Grillo e Micromega la stampa nazionale non ha parlato del (vergognoso) opuscolo informativo (si fa per dire) inviato da Forza Italia ai parroci italiani allegato a questa lettera (altrettanto vergognosa).

Noi di Forza Italia abbiamo sempre considerato con grande rispetto e come fonte di ispirazione il contributo culturale e spirituale della Chiesa allo sviluppo della civiltà umana e, in particolare, della nostra Italia.
Per questo motivo, come cattolico impegnato in politica, ho chiesto agli amici e colleghi Fabio Garagnani e Antonio Calmieri di poter diffondere l'opuscolo che loro avevano preparato per le parrocchie dei rispettivi collegi.
Questa pubblicazione descrive sinteticamente alcune delle numerose realizzazioni del governo Berlusconi, che documentano come il governo abbia preso a cuore la libertà della persona, la promozione della famiglia e della vita, il principio di sussidiarietà e di solidarietà. A cominciare dalla legge sulla procreazione assistita e dal nostro impegno a difesa della legge approvata dal governo e che la sinistra ha cercato di abrogare per mezzo di un referendum.
La famiglia, cuore dell'attuale e fecondo lavoro pastorale di Benedetto XVI, e costante premura dell'indimenticabile Giovanni Paolo II, ha guidato la nostra politica, facendoci scoprire sentieri nuovi e oggi ancor più fecondi per la società italiana.
Ecco, allora, che abbiamo bocciato la proposta di legge sul divorzio veloce, perché non vogliamo indebolire il matrimonio; abbiamo aiutato le famiglie con i bonus per i nuovi nati; abbiamo incrementato i fondi per gli asili nido; abbiamo anche inserito a partire dalla finanziaria del 2003 detrazioni fiscali per le spese di iscrizione alle scuole paritarie, perché crediamo nella scuola libera.
Non ci siamo, altresì, tirati indietro per costruire la pace nella verità, come recentemente ha affermato anche Benedetto XVI, impegnandoci, nel contempo, nella lotta alla povertà e alle malattie nel terzo mondo e in numerose missioni di pace nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, dove i nostri soldati si sono distinti per preparazione e per umanità.
I deboli, a cominciare dai malati e dai pensionati, hanno avuto un riconoscimento non retorico o demagogico, e men che meno ideologico, ma sono stati i soggetti che ci hanno indicato il percorso della nuova politica.
Abbiamo seguito i loro bisogni e ascoltato la loro voce, che ci domandava aiuto e sostegno: lo abbiamo fatto a partire dall'aumento delle pensioni minime, dall'incremento da 70 a 93 miliardi di euro della spesa per il sistema sanitario nazionale, ai tanti interventi a favore delle persone con disabilità.
Infine, non possiamo trascurare un'ultima parola sull'importanza delle radici cristiane, che sono state sempre da noi affermate, e che ci hanno spinto a batterci per il riferimento ad esse nel trattato europeo, a difendere la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, a realizzare la legge per la regolarizzazione degli insegnanti di religione, la legge per gli oratori, l'abolizione dell'ICI per gli enti ecclesiastici e non profit.
Come Lei sa, fu Paolo VI a definire la politica come il massimo esercizio di carità. Noi abbiamo cercato di fare nostra questa verità, rendendola una risorsa concreta per l'intera popolazione, come vuole la Dottrina Sociale della Chiesa.
È, questo, il nostro modo di impegnarci per testimoniare la nostra fede. La prego di voler accogliere questo piccolo pensiero, la nostra semplice brochure, come un modo per condividere l'impegno difficile per l'affermazione della Verità Cristiana nella nostra società e nel tempo che ci è dato di vivere.
Con questi sentimenti e pensieri voglia ricevere i miei più affettuosi saluti.

Con viva cordialità

Suo devotissimo

Sandro Bondi

Per fortuna la reazione dei parroci c'è stata...

Signor Bondi,

sono abituato a dare alle parole il loro peso per cui a chiamarla “onorevole” dovrei coartare la mia coscienza.
Ho ricevuto l’inverecondo opuscolo che lei, immagino, ha inviato a tutte le parrocchie d’Italia.
Glielo restituisco senza nemmeno sfogliarlo e le ricordo che le parrocchie non sono discariche di rifiuti né postriboli nei quali si possa fare opera di meretricio.
Abbiamo una nostra dignità, noi sacerdoti, e non siamo usi a svendere per un piatto di fagioli il nostro patrimonio religioso, culturale, sociale ed umanistico che voi in cinque anni di malgoverno avete dilapidato.
Avete fatto razzia di tutto. Avete dissestato la finanza pubblica, avete ridotto alla fame gli enti locali da una parte e foraggiato, dall’altra, gli enti ecclesiastici cercando di comprarvi il nostro silenzio se non addirittura la nostra compiacenza.
Avete popolato il Parlamento di manigoldi, ladri e truffatori. Di 23 parlamentari condannati in via definitiva più della metà (13 per la precisione) fanno parte del vostro gruppo. Avete fornicato con il razzismo della Lega e con il fascismo di Rauti. Con voi i ricchi sono diventati più ricchi ed i poveri più poveri. Il vostro “Capo” in cinque anni ha quadruplicato il suo patrimonio, mentre le aziende del paese andavano in crisi. Solo l’elettromeccanica, nell’ultimo quadrimestre del 2005, ha perso il 7,1% del suo fatturato.
I nostri pensionati, da qualche anno in qua, non solo non riescono più ad accantonare un soldo, ma hanno incominciato a rosicchiare il loro già risicati risparmi.
Avete speso energie e sedute-fiume in parlamento per difendere a denti stretti le “vostre” libertà mentre il paese rotolava al 41° posto quanto a libertà di stampa e pluralismo di informazione, dopo l’Angola.
Avete mercificato i lavoratori e ipostatizzato le merci.
Si tenga pure, signor Bondi, la sua presunzione di coerenza con la “dottrina sociale della Chiesa”. Noi preti vogliamo tenerci cara la libertà di lotta e di contestazione contro la deriva liberista e populista della vostra coalizione.

Aldo Antonelli

(parroco)

Antrosano, 1 Marzo 2006

07 marzo 2006

Pensieri elettorali...

In questi giorni la mia testa è in subbuglio...piena di pensieri, idee, banalità, contraddizioni e via dicendo. Ad aggravare la situazione ci pensa il clima elettorale. Anche perchè queste elezioni le sento un pò mie. Mi sento un pò importante. Mi sento cittadino. Termine che per me non ha solo valore formale, di scatola, ma è pieno di contenuto. Sarà la gioventù o la cosiddetta "innocenza" ma questo per me è un peso. Un peso positivo in quanto posso far sentire la mia, se pur piccola, voce. Un peso "negativo" in quanto mi sento un pò osservato come se avessi il fiato sul collo. Sento molto la responsabilità. Di essere cittadino.
Essere cittadino comporta avere diritti, ma allo stesso tempo dei doveri che in democrazia siamo tenuti ad osservare, a rispettare. Se non fosse così il nostro paese non sarebbe democratico (in effetti dopo gli ultimi cinque anni di democrazia ne è rimasta ben poca visto che si è riusciti ad attaccare, stravolgendone i principi, uno dei capi saldi della nostra Repubblica ovvero la Carta del '48). Abbiamo la possibilità di partecipare attivamente ma abbiamo il dovere di controllare ciò che i "politici" (o dipendenti come ci insegna Grillo) fanno. Forse le cose che dico e sento saranno banali ma credo che a molte persone farebbe bene sentir parlare di queste banalità.

In questi giorni mi sembra che per far politica bisogna per forza essere MODERATI. Ma cosa cazzo significa essere moderati? Niente. Uno dei mali della politica moderna è proprio la moderazione. Bisognerebbe prendere esempio da Dario Fò che politico di mestiere non è. La moderazione uccide gli ideali. La politica della moderazione, dell'accordo, della via di mezzo quindi uccide la politica stessa. Bisognerebbe esporsi di più, avere il coraggio di farlo ma soprattutto la forza, cosa che l'attuale classe politica non ha. Diffidate da chi si spaccia per moderato. La situazione che l'Italia deve affrontare sia all'esterno che al suo interno necessita di cambiamenti radicali e non moderati.
E sia chiaro, non intendo la radicalità della Lega e simili...l'unica cosa che questi hanno di radicale è l'ignoranza.

A dimostrazione di ciò oggi l'on. Lussana, leghista per l'appunto, ha avuto il coraggio della seguente affermazione:"In Iraq non c'è nessuna guerra". Lascio a voi i commenti.

02 marzo 2006

Berlusconi al Congresso Usa

Dear Congress, grazie mille for the democracy, for the good images from Abu Ghraib and for the fosforo bianco too. If you want to venire in Brianza qualche day, call me after 9 aprile, in the office of opposition chief. I love America, anche se with your law about falso in bilancio, in the United States the italian prime minister, cioè I, sarebbe in a Federal prison.

di Alessandro Robecchi

28 febbraio 2006

Italiani in miniatura

Il quaderno delle comunicazioni scuola-famiglia, che ogni cucciolo che va alle elementari porta nel suo zaino, è molte cose insieme. È un piccolo trattatello di sociologia: noi qui, la scuola lì, e il quadernone come telefono senza fili. È un divertente mix di linguaggi burocratici. È un megafono di accorati appelli: portare sapone! Portare carta igienica! Portare qualche soldo! Mentre ci immaginiamo - ovviamente inteneriti - i nostri nani con la lingua fuori nell'immenso sforzo di scrivere ba-na-na o di dividere in due insiemi animali con coda e animali senza coda nei primi rudimenti della matematica, il quadernone dei rapporti scuola-famiglia racconta un'altra storia: la storia triste della scuola pubblica, regnanti Silvio e Tremonti, sotto l'egida liberista della signora Moratti Letizia. Con qualche stupore, dunque, vedo affacciarsi dal quadernone che fa da ambasciatore tra me e la scuola, un foglio ben scritto e dettagliato, firmato dal dirigente scolastico, cioè quel funzionario dello Stato che gestisce un complesso di tre scuole, più di mille infanti, circa duemila genitori. Ogni giorno, in questa eterna campagna elettorale, risuona alto il richiamo a parlare di cose reali, a occuparsi dei problemi della gente. Bene. Ecco qui i problemi della gente seienne, ottenne, decenne: italiani in miniatura.
Per il funzionamento amministrativo e didattico dell'istituto, cioè delle tre scuole, nell'anno 2006, il programma finanziario annuale elaborato in base agli stanziamenti di legge (legge finanziaria del 23.12.2005) destina 3,60 euro per ogni alunno iscritto. All'anno. Nel 2005 lo stanziamento era di 6 euro per ogni alunno. Il taglio è del 40 per cento. Per ogni classe funzionante lo stanziamento è di 73,20 euro, contro i 122 dell'anno passato, e fa un altro meno 40 per cento. È un tracollo, se tenete presente che già nel 2005 rispetto al 2004 c'era stato un taglio del 15 per cento. Ne deduco, con parecchia sorpresa, che ad ogni piccolo studente la scuola pubblica, cioè alla fin fine lo Stato italiano, passa per i suoi bisogni minimi (lavarsi le mani col sapone, pulirsi il culo con la carta igienica, pulizia di banchi, aule, corridoi, fotocopie, computer, eccetera eccetera) la bellezza di tre euro e mezzo in un anno. Altri calcoli sono possibili su altre cifre, quelle dell'offerta formativa, cioè la didattica. Per ogni alunno sono disponibili 4,10 euro l'anno (erano 4,81 nel 2005, meno 14,76 per cento). Per ogni docente in organico, la cifra è di 40,40 euro l'anno (meno 15,75 per cento). Cifre a cui bisogna aggiungere un taglio del 35 per cento sul finanziamento delle supplenze brevi: in certi casi le classi vengono accorpate e più che di insegnare a leggere e scrivere la facenda diventa una questione di ordine pubblico: mettete trenta nani in una stanzetta e vedrete da soli. Poi bisogna aggiungere che quest'anno (sorpresa!) le scuole dovranno pagare la tassa sullo smaltimento dei rifiuti, cioè 2-3.000 euro che se ne vanno da un così grottesco bilancio. Il comune (Milano, in questo caso) stoppa i fondi erogati per singoli progetti didattici, causa tagli agli enti locali. Il conto è presto fatto: per questi lumpen-lumpen-italiani e il loro spensierato mondo di pokemon. figurine e ambizioni (i più grandi) di playstation, sono disponibili 7,70 euro all'anno. I dirigenti scolastici che fanno funzionare tutto questo paiono dunque degli piccoli eroi, barchette pubbliche nel grande mare del liberismo.

Le famose Tre I della truffa berlusconiana datata 2001, vanno bellamente a farsi fottere. Internet non se ne parla, è un vero lusso quando sei gentilmente richiesto di portare sapone e carta igienica da casa. Inglese peggio ancora: le ore totali di inglese negli otto anni della scuola dell'obbligo erano 825 prima della legge Moratti e ora sono 459. L'Impresa, quella sì funziona: soltanto di dividendi delle sue aziende il capo del governo Silvio Berlusconi si è messo in tasca in questi giorni 141 milioni di euro: 39.000 euro al giorno, mentre per la formazione e l'istruzione dei nostri figli (finzionamento amministrativo più offerta formativa offerti dalla scuola) si spende ogni giorno 0,021 euro. Quanto a Letizia Moratti, si appresta a correre per governare Milano, e si lancia in roboanti promesse come: parcheggio gratis per chi fa shopping. Tutto qui, non serve la morale della favola, né il pistolotto finale. È una delle famose cose concrete che interessano la gente: piccoli indaffaratissimi nani alle prese con la scuola elementare pubblica. Ai tempi del colera.

di Alessandro Robecchi

16 febbraio 2006

Gli amici del leopardo


Ali Tariq si sorprende per le manifestazioni musulmane davanti alle ambasciate. Scrive: non hanno, i musulmani, altri e più minacciosi nemici di un vignettista? Eccome. Li hanno addosso: dagli eserciti che hanno fatto la guerra in Iraq e in Afganistan per gli interessi geoeconomici dell'occidente, ai governi arabi che la appoggiano mentre deprivano i loro popoli di tutti i diritti e dell'accesso alla ricchezza del proprio paese, alla supponenza europea nei loro confronti pari soltanto alla codardia verso Bush. Ma contro questo schieramento nemico non hanno né gli strumenti né la forza per reagire. Incassano il peggio, cresce l'esasperazione e mettono fuoco ad alcune tranquille ambasciate che non c'entrano molto. Potrebbero fare di più contro i loro nemici veri e astenersi da una protesta deviata dunque vana e che li isola? Non so. Si può rimproverare loro di non essere all'altezza dello scontro? Si può. Ma una soggettività complessa e all'altezza della sfida presente andava da tempo seminata e alimentata, sostenuta da una solidarietà. Nulla di questo è avvenuto. Che è successo dei tentativi delle loro dirigenze laiche? Chi ha difeso il popolo in questo senso più avanzato, i palestinesi? L'occidente, miope, se ne è guardato bene. Gli Usa hanno utilizzato l'Iraq contro l'Iran e oggi un islam contro l'altro, finendo con il cacciare tutto il Medioriente nel fondamentalismo. E quale alleato avrebbe oggi in Europa un islam che si proponesse di sbaraccare la «guerra infinita» tagliando alle radici il fondamentalismo e la sua coda terrorista? Nessuno. Mi si nomini una sola cancelleria che lo farebbe, un movimento sociale che lo sosterrebbe non solo a parole. Io non ne vedo. Ma non è questo deviare della protesta e della mobilitazione dal vero nemico un vizio soltanto loro, del quale hanno qualche giustificazione. È proprio anche delle nostre società.

Già negli anni `70 Franco Fortini scriveva, sulle tracce di Turkey, che quel che era una volta una discesa in piazza del popolo per ottenere un diritto negato o esigere un bisogno, tende a diventare oggi un'autorappresentazione, puro mezzo di visibilità che poi sparisce per repressione, isolamento, stanchezza. Non è lo stesso la aspirazione attuale di alcuni gruppi molto minoritari a passare da invisibili a visibili, attraverso presenze che più possono essere mediatizzate, a prescindere dall'obiettivo che li ha mossi? E pazienza quando tendono soltanto a questo. Ma sempre più spesso alcuni di essi parassitano movimenti più vasti, che si aggregano fuori di loro, per coinvolgerli in scontri più accesi sia perché li considerano politicamente opportunisti sia per provocare una reazione della polizia. Della quale nulla giustifica l'intervento repressivo. Ma intanto esso ricade inesorabilmente sulle folle mosse da un intento unitario più puntuale, pacifico e tale da mettere in difficoltà i poteri. Non è avvenuto questo con la manifestazione anti Tav della Val di Susa? È il vecchio vizio di chi si definisce avanguardia. La sua vera radice, anche se non confessata, sta nell'impotenza a incidere il blocco avversario. Di qui la tentazione a ripiegare su un simbolo. Il nemico sono oggi gli Stati uniti e le multinazionali, complesso di enormi dimensioni e capacità non solo repressive. La Coca Cola, che è una multinazionale e simbolo della penetrazione americana attraverso i consumi, ha sponsorizzato le Olimpiadi. Né la Coca Cola né le Olimpiadi in quanto tali si potevano attaccare, per cui ci si è attaccati al loro ultimissimo anello: il tedoforo.

La stampa ha dato loro più corda che mai, Repubblica e Corriere hanno titolato per tre giorni la prima pagina: «Torino sotto assedio» per cambiare nel corso d'una sera con: «Torino in festa», facendo finire in un trafiletto interno le poche decine di ragazzi, nessuno dei quali aveva le mani sporche di sangue né di quattrini, che si ritiravano mestamente. L'impotenza si trova nemici e identità sostitutive.

Anche il mio amato Valentino Parlato rischia di farsi prendere da amico del leopardo. Prima che tutti i nostri valorosi colleghi si lanciassero alla ricerca di tutte le tensioni nella coalizione, di destra, sinistra o centro che siano - chi mai, salvo il rispetto, aveva dedicato tre colonne al coerente trotzkista Ferrando? - siamo stati noi, il manifesto a dirci acerbamente delusi dal programma di Prodi. Io mi sono letta quel malloppo - più voluminoso e meno firmato di quello de l'Ernesto - senza delusione alcuna. Non mi ero affatto aspettata di più, come poteva essere? La coalizione si è data e si è formata su un obiettivo primario: battere la Casa delle Libertà. E non è poco, è una condizione della democrazia.

Soltanto con Berlusconi fuori di scena si potrà ricominciare a parlare di politica. Adesso devi badare a quel che dici, ogni differenza di idee è materia di gossip, ogni, dio non voglia, divergenza è enfatizzata come lacerazione incombente e quindi incapacità di governare. Che la Casa della Libertà abbia governato con Bossi e Fini assieme non importa, e giustamente. Avevano in comune l'attacco alla Costituzione, al lavoro e alla cultura, la privatizzazione di tutto e un colpo decisivo allo stato sociale. Questo li teneva uniti. Sulla sponda opposta, da Rutelli a Bertinotti via Prodi e D'Alema hanno in comune la restaurazione di quel che della Costituzione resta, l'abolizione del conflitto di interessi, l'autonomia della magistratura e della Rai e dell'informazione, un qualche equilibrio fra impresa e lavoro. Non è molto, ma va in direzione del tutto diversa. Che poi Rutelli frascheggi con la Udc non importa granché. A breve termine non andrà molto lontano.

Che Prodi sia tirato da una parte e dall'altra, specie da un'Europa senza più trattato né crescita, non sorprende; nella coalizione la crisi dell'ipotesi liberista che sottendeva la Ue è più visibile e più urgente. Che il rapporto con gli Stati uniti e la guerra infinita diventerà terreno bruciante è prevedibile. Che Rifondazione e la Margherita abbiano un'idea diversa della società, del lavoro e della persona, e che i Ds siano stretti a evitare gli errori che li hanno portati a perdere il governo è sicuro. In un paese che Berlusconi ha trovato guasto e ha guastato ulteriormente, a dinamica produttiva e crescita zero, a egoismi crescenti e senso della solidarietà in gran parte perduto, la partita sarà più difficile che non fosse cinque anni fa. Anche da questo è venuta, penso, la difficoltà di indicare quattro precisissime scelte, al di là del restauro di uno stile istituzionale e della divisione dei poteri. Le Tav sono più d'una.

Sarà sul terreno che, stabilito un qualche orizzonte di rimedi al quinquennio, si disegnerà l'approdo. È mia ostinata persuasione che sarà il rapporto di forza e creatività sociale e intellettuale a deciderne le tappe. Per questo darò il voto a Bertinotti pur sapendo che il governo non sarà il suo, e pur essendo meno vicina a lui che non fossi qualche anno fa.

In questo transito ciascuno di noi, il manifesto incluso, sarà costretto a uscire dalla denuncia e dalle vaghezze, capire le priorità e valutare chi mobilitare - il terreno politico che abbiamo scelto sta nella società, non passa per il parlamento e non ne sottovaluta la funzione. Intanto importa che la maggioranza non sia più quella di ora. Se Berlusconi dovesse passare ancora una volta non ci resterebbe - la rivoluzione non essendo all'o.d.g - che elevare alte strida.

di Rossana Rossanda